Country of My Heart. Maria Franca Martino, Fiore d’ulivo, Campobasso, Editrice San Giorgio, 2010
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di Giuseppe Panella*
Non è tanto una Spoon River del molisano quanto un racconto di Natale. Maria Franca Martino ricorda il passato della sua infanzia e della sua giovinezza ma non si fa (troppe) illusioni. Se il paese natio poteva sembrare agli occhi della bambina di un tempo un luogo incantato e ricco di meraviglie non lo era certo di fronte a quelli degli emigranti “in terre assai luntane” che ogni tanto tornavano a casa per le feste natalizie. Castelverrino è un paese minuscolo (140 abitanti) del Molise, in provincia di Isernia, ed è situato in una terra desolata e povera, anche se spesso di selvaggia quanto non coltivata bellezza. La sua storia e i suoi monumenti sono stati studiati a lungo e con accuratezza dalla Martino che al suo paese (come già fece Benedetto Croce per la sua Pescasseroli che non è poi tanto distante) ha già dedicato due libri di quella che si suole definire “storia locale” (Castelverrino, Isernia, Grafica Isernina uscito nel 2003 e Il Palazzo Baronale di Castelverrino che è, invece, del 2006 pubblicato da Terenzi editore di Venafro, Isernia). Ma la qualità migliore, più autentica di Fiore d’ulivo non è tanto l’accuratezza della testimonianza storica quanto di quella umana:
«Non vedo i compagni dell’infanzia. Il loro chiasso non riempie le strade del borgo dove si rincorrevano scavalcando d’un fiato i lunghi gradini. Lasciarono le case dov’erano nati e partirono a cercare fortuna nelle Americhe anche i ragazzi della piazzetta rotonda. Qualcuno tornò, gli altri restarono oltre oceano colmi di nostalgia. Servivano soldi e istruzione. Ai figli si doveva preparare un futuro diverso. Per quelli che restarono, la trasformazione in lavoratori-operai e poi salariati portò lentamente al riscatto dalla stessa terra che li aveva troppo a lungo sposati. Ma ancora negli anni cinquanta e sessanta si continuò a partire. Il fenomeno non si arrestò e le belle montagne, i paesi, i campi si spopolarono. Quelli che rimasero fedeli alle radici tornano, ancora oggi, a cercarvi il loro punto di riferimento. Si vedono nelle feste con le processioni o per accompagnare gli anziani al cimitero non avendo mai smesso di ricordare i loro visi segnati di rughe e d’intemperie. In quei momenti, ci ritroviamo a camminare insieme come dentro la corrente di un fiume che continua a scorrere finché non si perde dentro il mare. Sono lucenti stasera le stelle nel blu che copre i monti. Verrebbe voglia di andarle a raccogliere come fossero dei fiori. La mia casa dorme sopra la collina. Ma il risveglio è ricco di sorprese. A fiocchi larghi cade la neve di marzo e sale dai tetti il fumo rassicurante dei camini. La valigia è chiusa. Sorseggio il caffè caldo dietro i vetri. L’intesa continua tra il mio villaggio e me. Posso partire per ritrovare tutto al ritorno » (pp. 29-30).
La tragedia dell’emigrazione, la gioia del ritorno: sono due momenti chiave del discorso poetico della Martino. Ma non solo il dolore emerge dal racconto dei tempi passati: è il senso di una comunità forte e legata da vincoli che vanno oltre quelli del sangue a essere costruita a poco a poco nel racconto di ciò che è accaduto dopo la fine della guerra e la corsa verso la modernità di un paese come Castelverrino che sembrava immune dalle lusinghe dell’industrializzazione e della sua civiltà.
La poesia resta nelle cose e proprio le cose sono confitte nello specchio dei ricordi: è alla dimensione materiale della vita che si rivolge lo sguardo retroverso della scrittura lirica e in essa è possibile ritrovare in maniera esplicita le possibilità e le capacità più forti di evocazione che la realtà della memoria possiede e che in questo modo riesce a comunicare a chi è in grado di condividerla e comprenderla. Anche se i tempi sono passati la vita si è come fermata in attesa del ritorno alla dimensione aurorale e auratica di un’infanzia mai perduta. La bambina di un tempo si congiunge alla donna del presente per provare a tendere un ponte che abbracci entrambi. In questo sforzo difficile e, nello stesso tempo, pericoloso come una corda tesa (il ricordo potrebbe franare in una pura e semplice contemplazione di ciò che sembra bello solo è perché è già stato e il momento attuale potrebbe, invece, risultare inficiato dal desiderio di ripetere un’esperienza in realtà non riproponibile), la scrittura di Maria Franca Martino si affida alla dimensione lirica del significante quale forma e meccanismo esorcistico dell’oblio possibile. Così emergono le filastrocche infantili, le parole ormai trascorse e non più ascoltate (come la “dodda”, la dote della sposa promessa in procinto di passare dalla casa paterna a quella del marito ormai prossimo), il richiamo a una religiosità arcaica e sicuramente ingenua che vedeva nel mondo terreno la presenza di ciò che si crede debba popolare il livello intermedio tra cielo e terra. Le feste popolari per la Madonna patrona del paese, la paura selvaggia e la volontà feroce di escludere dal contesto sociale le vecchine che venivano ritenute delle streghe pericolose e malefiche, la fiducia un po’ stolida ma frequente (e frequentata a caro prezzo) nei maghi e negli stregoni capaci di “cacciare il malocchio” e di guarire da malattie spesso immaginarie e dovute a cattiva o scarsa nutrizione compaiono ad una ad una nelle pagine del libro della Martino. Senza troppi e cocenti rimpianti ovviamente (la nostalgia trapela qua e là ma è contenuta assai convenientemente nel perimetro degli affetti familiari), le figure che scorrono nel libro sono icone che sintetizzano una vita e forse la informano ancora: la nonna Mercedes (di cui viene tracciato uno splendido “ritratto in piedi”), il padre Vittorio, i fratelli, la vita quotidiana fatta di incentivi a sognare e di leccornie per sostenersi e gratificarsi, le feste, i confusi ricordi di lotte passate con i fratelli/ nemici di Poggio Sannita, i racconti mitici e mitizzati dei viaggi d’oltremare:
«Uccelli notturni, vampiri succhiatori di sangue, diavoli che infilzavano dannati nei fuochi dell’inferno, gufi e fantasmi che giravano nei cimiteri continuarono a riempire l’immaginario della superstizione e rendere timorosi quelli che ne erano succubi finché non si dovette ammettere che asinelli dalle stalle e galline dal pollaio non erano le streghe o la magia che li facevano scomparire. Però, di storie se ne sentivano raccontare sempre di tutti i colori specialmente quando si passava davanti alle porte aperte delle case. Se qualcuna era più succulenta, allora si formavano crocchi di persone a commentare facendo esclamazioni ad alta voce: “Dio Dio caccia satana dal fuoco mio”, “Gesù sant’Anna e Maria salvate l’anima mia”, “assaccartocc”, “assaccartocc”…Tutte esprimevano scongiuri con l’intenzione di allontanare danni e disgrazie, ma anche invocazioni rivolte a forze occulte contro iettature e sorti imprevedibili che potessero intralciare il corso naturale delle vicende umane. Più le storie erano truculente e più pareva che ci si crogiolasse dentro a rimestarle nei minimi dettagli in un paese che conteneva / tanta poesia / e tanta ingenuità / mescolata a fatti e fattacci / fiori di melo / puzza di letame / miseria e / nobiltà» (pp. 91-92).
La superstizione contadina (spesso condivisa anche da strati più acculturati e raziocinanti della popolazione – come il nonno di Luigino che con intelligenza salva il nipotino dalla morte per denutrizione facendo mangiare un po’ meglio tutta la famiglia e impedendo che venisse sprecato il denaro voluto dal guaritore locale che avrebbe dovuto liberarlo dalla malia delle streghe) si accoppia alla miseria di sempre e alla conseguente aspirazione di sempre ad una vita migliore. Così Viola, destinata a un uomo che non conosce e che vive in America, dovrebbe sposarlo per procura e poi andarsi a stabilire negli USA. Decide, invece, di recarvicisi direttamente e sulla nave conoscere Luca. I due giovani si innamoreranno perdutamente decidendo quindi di restare insieme, per la vita e la morte, e l’uomo destinato a Viola sarà rifiutato per sempre dalla ragazza. Nel mito affonda le sue radici anche l’eterna rivalità con gli abitanti di Poggio Sannita (meglio noto come il feudo del Marchese di Caccavone) e la battaglia sostenuta dai castelverrinesi per difendere la miracolosa statua della Madonna della Libera che i poggesi avrebbero voluto portare via e danneggiare per sempre. La battaglia sarà vinta dai castelverrinesi armati di forconi, roncole, vanghe, zappe e picconi che si contrapposero con decisione e coraggio al piano sacrilego dei poggesi che avrebbero voluto far congiungere la statua mariana con quella di San Prospero, patrono del paese dirimpettaio a quello della Martino. Sono storie del passato leggendario del paese ancora vive nel cuore della sua gente, storie che affondano in un remoto passato sempre presente, storie che dicono di una “lunga fedeltà” alla vita di un tempo che fu e che ora sopravvive soltanto nel cuore e nei ricordi di chi c’è stato. Il “fiore d’ulivo” del titolo (e di una filastrocca in versi in esso contenuta) continuerà così a fiorire ancora per molto, nonostante le trasformazioni radicali che il mondo agricolo e patriarcale del paese ha inevitabilmente subito e nonostante il fatto che le sue attese non siano state mantenute.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)