di Laura Cioni
Aelredo di Rievaux - miniatura dal "De Speculo Caritatis" - 1140 ca.
Chi afferma che la vita quotidiana e gli scritti del Medioevo siano schiacciati dalla trascendenza, spesso non considera alcuni testi poco noti, ma significativi a quell’epoca, che documentano un vissuto molto diverso.
Aelredo di Rievaux, monaco cistercense del XII secolo, scrive il De spirituali amicitia, uno degli scritti più interessanti di quell’età di rinascita, che ebbe come fonte, oltre al patrimonio della Scrittura e dei Padri, anche le opere dei classici latini. Gli studiosi affermano che, per quanto riguarda la dottrina sull’amicizia, Aelredo è per il Medioevo ciò che Cicerone fu per l’antichità.
Invitato da san Bernardo a scrivere le sue opere sotto l’ombra degli alberi, cioè nel raccoglimento offerto dal silenzio della natura, Aelredo viene eletto abate nel 1147 e in questo servizio reso alla sua comunità rivela doti di dolcezza, di equilibrio, di tatto e di delicatezza nel comprendere gli uomini a lui affidati e nel guidarli nella vita monastica. Perciò le opere della tradizione classica e cristiana da cui attinge la sua saggezza diventano vive in lui nell’esperienza dell’amicizia spirituale: da qui nasce il suo breve trattato.
Egli parte dalle definizioni della parola amicizia date da Cicerone e da Sallustio: il primo aveva scritto che l’amicizia non è altro che l’accordo in tutte le cose divine e umane, con benevolenza e carità; il secondo aveva osservato per bocca di Catilina, che volere le stesse cose, rifiutare le stesse, è questa la vera amicizia.
Idem velle atque idem nolle: espressione colta e insieme adagio popolare, che anche Benedetto XVI cita nella sua prima enciclica Deus caritas est, assegnando alle parole antiche il significato di quel “diventare l’uno simile all’altro, che conduce alla comunanza del volere e del pensare”.
Aelredo completa le definizioni della tradizione latina, immettendovi il fremito e soprattutto l’esperienza vissuta del Vangelo, fino a parafrasare l’espressione della prima lettera di Giovanni, scrivendo: Dio è amicizia e chi rimane nell’amicizia rimane in Dio.
Anche se egli non giunge, a parere dei teologi, a porre nella luce misteriosa della Trinità il fondamento di ogni amicizia umana, lascia scorgere la sua possibile profondità, definendola il riposo nella dolcezza di una carità divenuta reciproca e si spinge a dire qualcosa che sembra esagerato e cioè che la carità reciproca arriva fino alla comunicazione di tutti i segreti.
Il trattato distingue gli effetti della carità, intesa in senso oggettivo e meno personale, in onestà, verità, volontà, azione; i frutti dell’amicizia sono invece connotati da parole più attinenti alla sfera dei sentimenti: soavità, gioia, dolcezza, affetto. Viene messo in luce cioè anche l’aspetto emotivo della relazione tra gli uomini, le cui componenti si possono riassumere nel termine familiarità.
San Paolo scrive agli Efesini che essi non sono più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio. Aelredo considera la peculiarità dell’amicizia cristiana, che nasce e si perfeziona nel Signore Gesù, accrescendo l’intensità della stima e del sentimento naturale.
Non è facile tuttavia vivere la profondità del misterioso legame che unisce gli uomini nella predilezione. Il libro del Siracide osserva con espressione diventata proverbiale:
Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova, trova un tesoro.
Ma come ogni bene che non dipende solo dalla volontà umana e dai fatti della vita, anche l’amicizia è una grazia che la preghiera può ottenere.
da “ilSussidiario.net”, 21/07/2011.