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Però il Muro era già il Muro: un monumento planetario alla follia, una gigantesca lama per tagliare la carne viva dell'umanità.
Io e Tito Barbini due anni fa abbiamo scritto insieme Caduti dal Muro (Vallecchi), un libro a quattro mani ma soprattutto un viaggio in quella follia. Ne voglio riproporre un pezzettino scritto da Tito, una delle prime pagine.
Ti voglio raccontare di quando misi piede per la prima volta a Berlino, qualcosa come quaranta anni fa. Il Muro era stato tirato su da non troppo tempo.
Ancora oggi la cosa che mi ricordo meglio è la stazione di Friedrichstrasse, quella del famoso checkpoint Charlie, il posto di frontiera dal quale entrai nella Repubblica Democratica Tedesca: la DDR, tre lettere di una sigla che già mi pareva richiamasse la potenza delle acciaierie e la solennità delle parate militari.
E in realtà quello che avevo davanti agli occhi erano i riflettori da lager che gettavano ovunque i loro coni di luce, le torrette appollaiate sui blocchi di cemento armato, le lugubri fisionomie dei vopos, i guardiani della “cortina di ferro”.
Prima ancora di quello che tutto questo poteva e può simboleggiare, a colpirmi furono le caratteristiche della costruzione. Quando vi arrivai non era stata ancora completata quella che sarebbe stata presto ribattezzata la “striscia della morte”, un complesso di recinzioni, trincee anticarro, cavalli di frisia e barriere di filo spinato irrobustito da oltre trecento posti di guardia e da una trentina di bunker, il tutto ben delimitato da una strada per il pattugliamento sempre illuminata a giorno.
Però già allora si era dato fondo a enormi riserve di denaro e di ingegno per scongiurare e reprimere qualsiasi tentativo di fuga. Perché questo era il suo scopo, il suo unico scopo, altro che un muro di “protezione antifascista” per proteggersi dall’eventuale aggressione delle potenze occidentali.
Si diceva il Muro, ma in realtà si trattava di due muri.
Quello che guardava a ovest era di un colore molto chiaro per mostrare meglio il profilo dei fuggiaschi ed era sormontato da un tubo di cemento per impedire di arrampicarsi.
Dietro si celavano vari fossati e fili spinati con allarmi ottici e sonori. Una pista era destinata allo scorrimento dei guardiani e una a quello dei cani da guardia, con un lungo guinzaglio che scorreva su appositi binari.
L’ultima striscia, prima del muro orientale era una sorta di campo con punte di acciaio conficcate nel terreno. I berlinesi chiamavano questo spazio con un nome bizzarro, ma assolutamente evocativo: “erba di Stalin”.
Un gigantesco monumento alla follia e alla crudeltà, disteso per oltre 150 chilometri, ma in realtà ancora più lungo, tanto lungo e tanto massiccio da spaccare in due l’Europa, da dividere il mondo. Da isolare e sigillare sotto vuoto il “blocco comunista”.
Se mi capita di inciampare ancora su questa espressione – con quello di metallico, di spietato che mi richiama la parola “blocco”, una sorta di tagliola della voce – in realtà mi viene da pensare proprio al Muro.
Vedi, Paolo, la frontiera fa sempre un certo effetto.
La frontiera è tante cose insieme: paura e speranza, inquietudine e stupore, prigione e libertà. La frontiera non separa solo due lembi di terra, divide anche te a metà. Chiude una porta e ne apre un’altra.
Ma le emozioni più forti me le desta ancora oggi proprio questa frontiera che non c’è più e che un tempo tagliava il cielo di Berlino.
Pensare che oltre il Muro c’era solo un tavolo piazzato in mezzo a una stanzone grigio. Grigio come le uniformi delle guardie che ti scrutavano, grigio come le nuvole che per molti giorni all’anno sostano sopra Berlino, grigio come i tristi caseggiati di tanta edilizia socialista.
L’unica macchia di rosso era lo striscione che ti dava il benvenuto.
Ti prendeva il cuore e lo stomaco, per forza.
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