Locandina della rassegna culturale “Fermo sui Libri”
Se si esclude la zampata disorganizzativa data al Comune nel quale s’è svolto l’evento, è stato davvero arricchente e interessante ascoltare dal vivo il Prof. Umberto Galimberti. Del resto non si può pretendere che una personalità di questo rilievo, riesca da sola a far compiere ad una cittadina da sempre di provincia e governata da menti provinciali, un salto che definirei quantico e che le consentirebbe di prevedere l’arrivo di un folto pubblico ad una serata gratuita, in cui parlerà uno dei pensatori più noti in Italia e all’estero. Filosofo che s’è espresso davvero a vasto raggio, dai temi legati alla psiche fino al Cristianesimo! Saltiamo quindi che i poveri organizzatori hanno dovuto supplire alle inefficienze Comunali, accompagnando i presenti ad accaparrarsi le seggiole nelle altre sale del salotto buono della città e veniamo alla serata.
La sensazione, naturalmente, è quella di trovarsi di fronte ad un grande personaggio. Che sostanzia le proprie riflessioni passando da Hegel ad Heidegger, transitando per Pasolini, Marx ed altri: tutti citati con brani a memoria dei loro scritti e facendo precedere la versione italiana della citazione, da quella in lingua originale (ne ho contate almeno 4 tra Francese, Tedesco, Greco antico e Latino). Notevole direi.
Venendo al contenuto della conferenza poi, il messaggio principale è quello di un tempo legato alla tecnica ed al mercato. Governato da leggi che superano il modello umanistico e l’approccio rispettoso dell’individuo per ossequiare l’efficienza della tecnica appunto, in cui sono le procedure ad avere più valore rispetto alle persone. Il denaro guadagna in tal senso una supremazia che non è più legata a concetti come produzione e lavoro, quali si potevano intendere in passato. Oggi il denaro si produce da sé, con lo scambio di altro denaro e non con la creazione di qualcosa. Il consumo diviene centrale e gli oggetti stessi contengono in sé l’idea nichilistica della fine. Della loro fine come di quella di una società civile che non si da più la prospettiva di una vera crescita: guidata com’è da regole che non permettono ai giovani nemmeno di affacciarsi nel mondo produttivo.
In un contesto governato dal mercato, afferma Galimberti, i giovani sono emarginati perché fuori dai giochi, soprattutto dopo l’allungamento della vita media (l’abnorme beffa della medicina!). Sono i nonni a governare la società, perché ai vertici delle attuali modalità “produttive” della ricchezza. I padri sono lì che aspettano il loro turno ed i giovani restano sine die inchiodati alla loro condizione “giovanile”. Da questa prospettiva la riflessione porta quindi a pensare che i nostri ragazzi, quelli delle cronache urbane e nazionali (vedi anche quanto ho scritto di recente su questo blog) non soffrano di problemi psicologici ma di difficoltà culturali.
All’interno di una Nazione in cui “grande lettore” viene considerato chi legge tre libri all’anno (sigh!), per i giovani il futuro non risulta più essere una promessa, al pari di quanto possa essere stato per le generazioni precedenti… appena appena fino alla mia ma e certo non oltre. Il futuro diviene piuttosto una minaccia per chi si appresta a costruire la propria vita. Assume i toni di un’epoca imprevedibile, dice Galimberti, rispetto alla quale persino l’uso di droghe o lo stile sempre più spinto di una vita condotta di notte, appaiono una forma di anestesia utile ad evitare l’ingresso in un mondo che non concede riconoscimento. “Chi convoca i giovani di giorno per costruire il proprio futuro“, s’interroga il professore?
I valori non scendono dal cielo ma sono convenzioni sociali con i quali una società cerca di convivere con la minore conflittualità possibile. I valori trasmutano in modo naturale però e quindi bisogna inventarne di nuovi.
In Italia si suicida uno studente al giorno, c’è un grande sfacelo nell’animo dei ragazzi e delle ragazze, nonostante sia proprio quella l’epoca (tra i 15 e i 30 anni) del massimo sviluppo per la potenza biologica e intellettiva individuale (“Il regalo arriva qui -dice Galimberti – negli anni successivi possiamo essere solo capaci di metterci il fiocco!”). Questo il mercato lo sa e lo sfrutta, proponendo modelli “mitici” (perché estranei alla realtà) come i nostri potentissimi calciatori e le bellissime veline che appaiono come soluzione rapida ed efficacissima all’impossibilità reale di reperire una giusta collocazione nella società civile e produttiva. La vera potenza del mondo giovanile però, il nostro futuro, non viene in tal modo utilizzata in senso creativo e ricreativo per la società stessa. Non si possono fare figli per la mancanza di risorse primarie come casa, lavoro, ecc. e il denaro si afferma, secondo quanto dice Galimberti citando a braccio Heidegger, “il generatore simbolico di tutti i valori“.
Ora dunque, ascoltando questa relazione che maldestramente ho provato a riassumere (chiedo venia se qualcuno che fosse stato presente mi legge, per le banali riassunzioni cognitive che la mia mente ha prodotto dal basso della sua ignoranza), non si può non sentire in essa una grande verità. Le cose stanno realmente così. Il vivere civile segue sempre più solo le logiche di un mercato basato sull’autoriproduzione del denaro, in cui è davvero molto difficile se non impossibile per le nuove generazioni inserire il proprio sapere: per quanto fresco, competente e raffinato. Ma mentre sei lì che t’immergi nel Galimbertiano pensiero e ti pare di cogliere una prospettiva alta delle difficoltà di vita con cui ogni giorno ti confronti vivendole, leggendole o ascoltandole ecco l’imprevisto: un ragazzo prende il microfono e pone la questione della speranza!
Guccini il poeta (anche lui sommo a mio avviso ma… è un’altra storia) dice in una sua canzone: “(…) come vedi tutto è normale in questa inutile sarabanda, ma nell’intreccio di vita uguale soffia il libeccio di una domanda, punge il rovaio di un dubbio eterno un formicaio di cose andate, di chi aspetta sempre l’inverno per desiderare una nuova estate.” (Cit. Lettera di F. Guccini, in D’amore di morte e d’altre sciocchezze, EMI 1996).
E quindi come si fa a conciliare l’elevata visione nichilista del Prof. Galimberti con il quotidiano bisogno di speranza dell’uomo comune che noi tutti siamo? E come si fa poi a legare quella visione noir secondo cui “Occidente significa Terra del Tramonto”, che ci invita a pensare che portiamo già in nuce nella nostra cultura, la condanna della disfatta, con la realtà vissuta: che ogni giorno, di fatto, noi esseri umani continuiamo a trovare soluzioni nuove e creative con le quali procediamo nella vita? Per ogni giovane che “sceglie” di mollare, ce ne sono migliaia che non lo fanno: a questo che senso diamo? O dovremmo forse lasciar tutti andare, perché tanto non ci possiamo più riprendere dalla disfatta in cui ci troviamo immersi?
Mia figlia, di ritorno con noi dalla Conferenza, mentre parlavamo di quel che avevamo ascoltato, sembra anche lei voler sentire parole di speranza e chiedere un appiglio per poter rifiutare quest’approccio solo pessimista al futuro. Galimberti ha risposto al giovane che gli chiedeva di ascoltare qualcosa sulla speranza, dicendo che lui non poteva farlo. Che il suo pensiero era simile a quello dei Greci, secondo cui l’età dell’oro era ormai tramontata; non sapeva guardare alla speranza tipica ad esempio del Cristianesimo!
Io invece dico che non possiamo chiuderla così. Che ai nostri figli come agli adolescenti che vedo in terapia, non posso e non voglio raccontare solo questa verità ma voglio e posso aggiungere un altro frammento che io considero reale. Perché, se citare il Vangelo la dove parla degli uccelli del cielo e dei gigli del campo, potrebbe sembrare fatalista e addirittura banale; non lo sarebbe invece divenire più consapevoli di quanto i nostri pensieri orientano la creazione della realtà in cui viviamo!
“Che cos’è reale per te?” dovrebbe essere la domanda. “In cosa tu decidi e scegli di credere?” dovrebbe divenire il quesito con cui cresciamo i nostri ragazzi. Perché dovremmo aver capito che quello “fa” il nostro mondo; che quello “crea” la realtà in cui viviamo. Se parlate della crisi attuale con persone diverse, vi daranno visioni diverse in funzione del loro modo di approcciare la realtà: per qualcuno è una disfatta (i media in questo aiutano a credere nella fine imminente!), mentre per altri è una grande opportunità di creazione e espansione. Se parlate con due persone di come si vive in una stessa città, vi descriveranno due diverse realtà.
E allora, perché negare una parola di speranza? Perché escluderla del tutto dalla prospettiva che doniamo al nostro mondo e a quello altrui? Bene Professore, come le ha detto il ragazzo nel suo intervento finale, anch’io la ringrazio per il suo lavoro che apprezzo, ma su questo sono in disaccordo con lei. Comprendo la sua necessità di coerenza intellettuale e la sua fede assoluta negli studi che ha condotto e nelle convinzioni che si è formato. Non le chiedo di dirla lei una parola a tal proposito ma la speranza no: quella non possiamo negarcela e non possiamo negarla al futuro.