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Come se i mafiosi li arrestassero loro, i mafioso: se fossero loro a coordinare le indagini, ad ascoltare ore di intercettazioni (quelle che danno fastidio quando riguardano uno di loro), a passare ore in attesa dell'azione.
La lotta contro la mafia è frutto del lavoro di tante persone, dentro le forze dell'ordine, dentro la magistratura. E perfino dentro la società civile, quella che alla mafia, non si rassegna proprio.
Verrebbe da dire, in risposta a quel ministro del nord che ad ogni arresto eccellente squadernava cifre, che quelle operazioni contro cosa nostra, la camorra, i casalesi sono riuscite nonostante il lavoro della politica. Che taglia i mezzi, che cerca di rendere sempre più impossibili le intercettazioni, che intrappola dentro la burocrazia la gestione dei beni confiscati alla mafia. Che fa leggi a favore la corruzione, l'evasione, il voto di scambio, il riciclaggio (per non dire dell'autoriciclaggio, del tutto assente nel nostro codice penale). Tutti reati satelliti del 416 bis.
E poi ci sono i pentiti: è anche grazie al lavoro dei pentiti che si è riusciti a combattere la mafia, comprendendone i meccanismi, i modi di operare, le gerarchie, le alleanze, le coperture.
Senza Buscetta (e gli altri boss della mafia perdente), il boss dei due mondi, né Falcone né Borsellino e tutto il pool avrebbero mai potuto istruire il maxi processo a cosa nostra.
Lo stato, in cambio del pentimento, delle rivelazioni dei segreti, ha concesso loro una nuova vita, una nuova identità. Ci sono stati sicuramente degli abusi: mi viene in mente quanto raccontava Gianni Palagonia nel suo libro “Il silenzio”, quando molti e mafiosi approfittarono dell'offerta dello stato per fare la bella vita. Mentre i poliziotti rischiavano la loro per poche lire.
Ma senza il contributo dei collaboratori di giustizia, non ci sarebbe verso di fare la lotta alle mafie.
Questi collaboratori sono persone che mettono in gioco le loro vite: le loro e quelle delle famiglie. Non è più possibile rimanere a vivere in un territorio che considera i pentiti dei traditori, infami.
Tra loro e lo stato si instaura un patto di fiducia: ma lo stato ha sempre rispettato questo patto?
La legge dei pentiti, voluta anche dall'allora ministro dell'interno Napolitano, ha abbassato a 6 mesi il tempo in cui un collaboratore può raccontare quello che sa dell'organizzazione. Questa legge è stata fatta (e votata dal centrosinistra a fine legislatura nel 2000) “perché ci sono troppi pentiti” (così disse). Sembrava come se l'obiettivo fosse silenziare i pentiti, scoraggiarli.
Ancora oggi, quando i mafiosi che collaborano alzano il tiro parlando del rapporto mafia e politica, c'è sempre la solita polemica di chi parla di calunniatori. Gente che dice cose false solo per avere soldi. Basta pensare al caso del pentito Spatuzza (e le bombe della stagione 1992 1993).
Non credo che Lea Garofalo, moglie di un boss della ndrangheta, che ha pagato con la vita la sua collaborazione, si sia mossa per denaro. O come anche Pino Masciari, abbandonato dallo stato.
Loro, in quel patto di fiducia con lo stato ci hanno creduto: ma lo stato ha creduto in loro?
Anche da questi racconti, che farà stasera Iacona a Presa diretta, si capisce a che punto è la lotta alle mafie.
La scheda della puntata: Presa diretta - testimoni di giustizia
Il terzo appuntamento di PRESADIRETTA dal titolo “TESTIMONI DI GIUSTIZIA”, in onda lunedì 20 gennaio alle 21.05 su Rai3, è un’inchiesta particolarmente delicata, in cui gli inviati del programma di Riccardo Iacona sono andati a conoscere i tanti testimoni di giustizia che con le loro denunce hanno contribuito a fare arrestare centinaia e centinaia di mafiosi.
Sono emerse storie davvero incredibili, mai viste prima: non solo quelle dei testimoni di giustizia che hanno pagato con la vita la scelta di raccontare allo Stato quello che sapevano, quello che avevano visto, come Lea Garofalo, moglie di un boss della ‘ndrangheta, uccisa nel 2009. Verranno raccontate anche le storie dei testimoni di giustizia che, da quando sono entrati nel “programma di protezione”, hanno perso tutto: casa, lavoro, città, senza avere in cambio la possibilità di una vita diversa. Come Carmelina Prisco o Pino Masciari. E le storie di chi ha rinunciato alla propria identità, come Piera Aiello o Giuseppe Carini, che oggi vivono con nomi diversi.
Verranno mostrate le difficili esistenze dei testimoni di giustizia che ancora vivono, sotto scorta, nei loro luoghi di origine. Isolati dalle comunità e dimenticati dallo Stato. Sono le storie di Tiberio Bentivoglio di Reggio Calabria, di Nello Ruello di Vibo Valentia, di Ignazio Cutrò di Bivona, in provincia di Agrigento. Nel frattempo, gli organici dei magistrati e degli uomini delle forze dell’Ordine che combattono la battaglia contro la Mafia, vengono progressivamente ridotti.
Storie di veri “eroi” civili, che lo Stato sembra aver dimenticato. Una vera e propria sconfitta per l’Antimafia, una vittoria per la Mafia.
“TESTIMONI DI GIUSTIZIA” è un racconto di Riccardo Iacona, con Federico Ruffo ed Elena
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