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Non smette di sorprendere, il nettunesco GJ 436b. Prima s’è scoperto che è avvolto da un manto di nubi. Poi è saltato fuori che queste nubi sono composte in gran parte da elio. Oggi apprendiamo dalle pagine di Nature che il gagliardo pianetone, distante da noi circa 33 anni luce, ama travestirsi da cometa. Ad accorgersene è stato un team di astronomi guidato da David Ehrenreich, dell’Osservatorio di Ginevra. Usando la vista multibanda del telescopio spaziale Hubble, i ricercatori si sono accorti d’una notevole discrepanza, in occasione dei transiti del pianeta davanti alla sua stella, fra i tempi (circa un’ora) e la superficie d’occultazione registrati in banda ottica e quelli in ultravioletto (oltre sei ore fra l’inizio e la fine del transito). Travestimento, abbiamo detto. In effetti, almeno in apparenza, la maestosa coda che GJ 436b si trascina appresso, nel suo vorticoso girotondo – ripassa dal “via” ogni due giorni e mezzo – attorno alla nana rossa che gli fa da stella madre, è una sorta di lunghissimo strascico d’atomi d’idrogeno. Per farsi un’idea delle dimensioni, basti pensare che se a ogni passaggio il pianeta occulta, con il suo corpo, appena lo 0.69 percento della superficie della stella, la “coda” ne mette in ombra il 56 percento. Fatte le dovute proporzioni, è come se una sposa entrasse in chiesa con un velo lungo quanto un campo da calcio. Ma in realtà, più che una veste, quella coda è la carne stessa del pianeta. O meglio, della sua atmosfera, strappata via a forza dai raggi X provenienti dalla vicina stella. E parliamo di quantità di materia che farebbero impallidire anche la dieta più estrema: le stime dicono che GJ 436b riesca a perdere la bellezza di mille tonnellate al secondo. Sì, avete letto bene: quasi un centinaio di miliardi di chili al giorno, se preferite. Nemmeno lontanamente sufficienti, però, per affrontare anche la più indulgente delle prove costume: considerando che si tratta d’un pianeta dalla massa paragonabile a quella di Nettuno, se procedesse a questi ritmi GJ 436b impiegherebbe circa un miliardo di anni per calare d’un irrisorio 0.1 percento. Al punto da suggerire agli scienziati che, in passato, il ritmo d’evaporazione dell’idrogeno dovesse essere assai più sostenuto, altrimenti non ci si spiegherebbe come tanti esopianeti analoghi riescano a trasformarsi in corpi rocciosi liberandosi, in tempi ragionevoli, di tutta – o quasi – la loro atmosfera. Fonte: www.media.inaf.it
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