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Ascoltando il recente Houston, We Have A Problem della Audionics si arriva molto presto alla conclusione che quel giorno il cantante non si sarebbe dovuto presentare sul palco del Summit. Non si riesce a capire come Elvis, in condizioni di salute tanto precarie, potesse ancora esibirsi due volte nel giro di poche ore, tenere quindi un concerto la sera del 27 agosto (San Antonio) e un altro il pomeriggio del giorno seguente, senza beneficiare degli indispensabili tempi di recupero. Mentre il CD gira furiosamente, incurante di quanto sta sottoponendo alla nostra attenzione, siamo silenziosi testimoni di una disfatta annunciata, durante la quale Elvis lotta, ricorrendo a mestiere ed esperienza, non tanto per stupire e deliziare i presenti, quanto piuttosto per tenere in piedi lo spettacolo e, non ultimo, per svegliarsi. In questo senso il siparietto iniziale con J.D. Sumner, l'introduzione della band e più in generale l'interazione con il pubblico assumono i contorni di una recita, messa in atto per prendere tempo e racimolare un po' di forze. Senza soffermarsi su ogni singola canzone, Love Me sembra doversi protrarre all'infinito, solo perché Elvis continua a non ricordare di doverla chiudere, All Shook Up, Teddy Bear e Don't Be Cruel sono pezzi di storia della musica gettati via e perfino un highlight del calibro di Hurt risulta mediocre. Il Re si scuote realmente soltanto quando esegue America The Beautiful, il numero ad alto tasso patriottico inserito nelle setlist del 1976 per celebrare il bicentenario degli Stati Uniti d'America. Al termine di Can't Help Falling In Love si ha la netta sensazione che Elvis sia arrivato al limite, che non avrebbe potuto cantare una sola nota in più.
Durante la prima parte del tour Elvis ebbe libero accesso al fantasmagorico assortimento di "medicinali" che assumeva abitualmente. Gli effetti di questa catastrofica possibilità si fecero sentire immediatamente e furono alla base della debacle di Houston. Un avvicendamento di medici in corsa consentirà al'ennesimo giro di concerti di proseguire fino alla fine, senza risolvere il problema di fondo.
Perché Elvis continuò ad esibirsi quando parve chiaro a tutti che sarebbe stato meglio fermarsi il tempo necessario per curarsi e riprendersi? Inutile continuare a cercare il colpevole fra manager insensibili, mogli in fuga, amici opportunisti e fidanzate bambine, se non si parte dal presupposto che, prescindendo dagli altri, bisogna sapersi prendere cura di se stessi, avere le idee chiare, desiderare con tutte le forze il cambiamento, l'inversione di rotta, gli obiettivi da perseguire. Certo, a quanto ci risulta il Colonnello Parker non mosse un dito per impedire al suo protetto di salire sui palcoscenici americani, ma non avrebbe potuto fare diversamente, perché aveva un disperato bisogno di soldi e i tempi di Hollywood e delle stratosferiche vendite di dischi erano finiti da un pezzo. Per contro, on the road c'erano montagne di dollari da spartirsi secondo la generosissima regola del fifty-fifty stabilita da poco. Sfortunatamente anche ad Elvis serviva denaro, con la medesima urgenza.
Nonostante alcuni segnali di crisi la ditta Presley - Parker restò sostanzialmente fedele all'assioma "io manager, tu artista" secondo il quale, per mezzo di una rigida compartimentazione, uno dei due si sarebbe occupato della gestione commerciale mentre l'altro, libero da pressioni e grattacapi, avrebbe dovuto liberare il suo enorme potenziale artistico. Paradossalmente, se i confini fra arte e denaro fossero stati ancora più marcati tutto sarebbe filato liscio. In realtà furono proprio i sconfinamenti nei campi altrui e il mancato adempimento dei doveri sanciti dall'unione a generare problemi. Parker mise troppo spesso Elvis nella condizione di dover sottoutilizzare il suo straripante talento e di attingere da fonti compositive non sempre all'altezza, condizionando pesantemente il corso della sua carriera. Dal canto suo, salvo poche eccezioni, Elvis non si curò mai del destino delle sue canzoni, non si presentò preparato all'appuntamento con gli studi di registrazione, non promosse i suoi album e, ad un certo punto, smise semplicemente di incidere, in barba ai contratti firmati e alle preoccupazioni della casa discografica. Il pressante bisogno di liquidi derivante dallo sperpero fece il resto, costringendo la leggenda vivente e il maneggione, accomunati dallo stesso destino, a macinare insieme migliaia di chilometri. Apparentemente per sempre.
Mentre il CD si ferma, ci rendiamo conto che Houston non è altro che uno dei momenti in cui il peso di tante scelte sbagliate e delle decisioni non prese si fece sentire, presentando il conto. Ci resta la consapevolezza che dopo l'ascolto il nostro amore per Elvis non risulta intaccato di una virgola. Invece siamo tutti con lui e vorremmo salire sulla macchina del tempo, farci trovare fuori dal Summit di Houston e dirgli "vieni, adesso ti porto a casa". Dopotutto, di manager privi di sensibilità se ne trovano tanti, di persone in grado di rendere le nostre vite più belle ce ne sono pochissime.
Foto: Roberto
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