Quel rischio che viene dall’interno

Creato il 29 luglio 2011 da Gadilu

E’ possibile prendere spunto dall’orribile eccidio di Oslo e Utoya per parlare dello stato di salute di un modello, quello del multiculturalismo, così importante per la salvaguardia di società complesse quali le nostre, ma anche espressione della loro irriducibile fragilità? Sfruttando l’esempio del Sudtirolo (territorio multiculturale a tutti gli effetti) quale contributo possiamo dare all’evoluzione di una discussione che coinvolge esperienze e problemi certamente più vasti di quelli accertabili tra il Brennero e Salorno?

Una buona indicazione in tal senso si può cogliere in un commento di Guido De Franceschi pubblicato su Il Foglio di martedì [link]. Il giornalista — interessato a svolgere riflessioni su piccole patrie, lingue minoritarie e separatismi — ha proposto di contestualizzare il terrificante gesto di Anders Behring Breivik nell’ambito di una ricerca sul pericolosissimo demone della “purezza” o della “particolarità”. Nel mirino c’è quella sorta di tarlo per cui l’essere un po’ diversi dagli altri non provoca soltanto un’orgogliosa e virtuosa coltivazione delle proprie qualità, ma un avvitamento psicologico alla ricerca di quello che ci rende unici.

E’ vero, il multiculturalismo rappresenta un antidoto al dominio di un culturalismo fondato sull’affermazione — alla fine razzistica e violenta — della purezza. Se tuttavia lo stesso multiculturalismo viene proposto alla stregua di una versione definitiva e incontestabile di una determinata società, non è purtroppo escluso che possano nascere crisi di rigetto incentrate proprio sull’accentuazione parossistica di un’idea di purezza perduta e quindi da riconquistare.

Una via d’uscita da questa micidiale contraddizione consisterebbe, secondo la condivisibile analisi conclusiva di De Franceschi, in un profondo ripensamento della fonte di rischio, ancora largamente sottovalutata, alla quale sono sottoposti tutti quei Paesi e quelle regioni (fra le quali possiamo citare anche la nostra, sempre così ossessionata dal prendersi cura della propria specificità) in un certo senso inclini a pensare se stessi secondo il criterio della purezza e della particolarità da preservare a ogni costo. Qui la sfida sembra essere insomma di difendere la propria particolarità non dall’“altro”, da chi siamo cioè abituati a ritenere il nemico “esterno”, quanto dal “sé”, cioè da chi non si perita a ricorrere sempre a strategie di compattamento identitario, finendo poi per innescare meccanismi isolazionistici e quindi potenzialmente autodistruttivi.

Corriere dell’Alto Adige, 29 luglio 2011



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