Un bel tramonto
Cosa c’entra questo cielo lucido che non è mai stato così blu, canta Ligabue in una sua canzone. Ed in effetti è il pensiero che mi martella il cervello per tutto il tempo in cui osservo il sole tingersi di arancione, mentre quel tramonto inutile ci tiene a dare il suo spettacolo, che in tutta onestà è un gran spettacolo; ma è con un peso nel petto che lo osservo, seduto sui gradini esterni di un centro di salute sferzato dal vento e dalla polvere di questo paese assurdo.
Pochi metri alle mie spalle, in una stanzetta ridicolamente piccola per garantire una qualsiasi assistenza ai malati, una mamma sta piangendo sul corpo di un bambino di sedici mesi che pesava soltanto sette chili.
“Il morbillo lo ha soltanto aiutato a morire” mi ripeto; “probabilmente sarebbe morto ugualmente”.
E mentre lo spettacolo del tramonto continua inesorabile, indifferente al dolore come a tutto il resto, osservo la vita che procede indisturbata, esplodendo attraverso le grida dei bambini che giocano poco lontano, o facendo capolino con delicatezza dagli occhi delle mamme che bivaccano su q uesti gradini, aspettando il loro turno.
Un’altra giornata di estenuanti preparativi volge al termine, ma è evidente che la vaccinazione arriverà troppo tardi, per quel bambino come per parecchi altri.
Me ne torno in albergo a piedi, indifferente alle voci che mi chiamano “Rasta man” e alle persone che mi salutano come se fossi Gesù. Purtroppo non sono Gesù; non ho nemmeno uno dei suoi bei poteri; forse non ce li ha più nemmeno lui, o forse ha soltanto esaurito l’amore, perché per lasciare morire un bambino di sedici mesi, così come tutti gli altri che muoiono in continuazione, bisogna seriamente avere un cuore di pietra, indipendentemente dalle buone ragioni e dalle dispute universali. Non ho più giustificazioni per questo ipotetico Dio che, da quel che dicono, ci ama come se fossimo suoi figli. In tutta onestà un Padre così preferisco non averlo…
Faccio una doccia per scrollarmi di dosso la rabbia e la polvere e, mentre mi rovescio il secchio d’acqua in testa, osservo che il ragno nell’angolo del soffitto non prenda iniziative poco gradite e che lo scarafaggio, grosso quanto il mio alluce, se ne stia buono nel suo angolino. Mi sento talmente vuoto che non provo nemmeno il solito schifo nei loro confronti, mi limito ad osservarli come se fossero ormai parte di questo squallido arredamento che qui viene definito lussuoso. Poi mi getto su letto, dal quale si alza una nuvola di polvere. La corrente salta per l’ennesima volta e questo, oltre ad essere fastidioso già di per se, disturba le falene attaccate al neon e al soffitto, che iniziano a volare in modo schizofrenico in ogni direzione. Me ne sto così, mezzo nudo, al buio, in compagnia di ragni, scarafaggi e falene che sbattono sul mio corpo nelle loro folli traiettorie, a dirmi che c’è qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo.
E mentre sento le energie scivolare via da me, come acqua che accarezza la pelle, cerco di convincermi che un senso ci deve essere e che il lavoro che stiamo facendo debba servire a qualcosa. Ma è difficile crederci davvero. E sarà difficile farlo credere anche a quella mamma, a quelle mamme, che ogni giorno si chinano sul corpo di un figlio che fino a qualche tempo prima si nascondeva sotto la loro gonna, o dormiva sulla loro schiena, avvolto in quelle fasce che apparentemente lo tenevano al sicuro.
La verità è che quelli che si salveranno serviranno soltanto a ricordarmi che se fossimo arrivati prima ne avremmo salvati molti di più e che, se il mondo non fosse così indifferente, nemmeno ci sarebbe bisogno di essere qui. Mi chiedo quando è stato che l’uomo ha smesso di soffrire per la morte degli innocenti e se, prima o poi, riuscirò a farci l’abitudine anche io; a passarci sopra, a guardare al risultato ottenuto anziché a quello sperato. Non è che mi illudessi di salvare il mondo, ma ritrovarsi faccia a faccia con la drammaticità della situazione è comunque un boccone difficile da mandare giù. Non contiamo centinaia di vittime al giorno e non sono nel mezzo di un conflitto armato, ben inteso; ma un bambino che muore a causa della malnutrizione…bè mi fa effetto…soprattutto quando nella mente si accavallano le immagini dei Mc Donald e delle sagre di paese.
Non parliamo di un tumore contro il quale non esiste una cura, né di un incidente fatale impossibile da prevedere. Si tratta di un pezzetto di pane negato, giorno dopo giorno, che con costante lentezza ha portato alla morte di una persona. Parliamo di una madre che vivrà per sempre col rimorso di non essere stata in grado di sfamare suo figlio e di averlo lasciato morire miseramente, in una stanza ammuffita e dall’odore insopportabile, di un piccolo, vuoto centro di salute.
C’è differenza… per me ce n’è tantissima.