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Quella Befana del ‘62

Creato il 06 gennaio 2011 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Quella Befana del ‘62 Ero piccolo. Mica scemo. Nel 1961 a scuola ci avevano imposto l’obbligo del fiocco tricolore. Fino ad allora era stato blu (le bambine rosa), con il colletto bianco e il grembiule nero. Quell’anno in Italia si celebrava il centenario dell’Unità e tutti i martiri, gli eroi, i santi, i poeti, i navigatori, gli artisti venivano ricordati in classe (facevo la prima elementare) con una solennità ieratica e a partire dal fiocco rigorosamente bianco, rosso e verde. Una maestra particolarmente dotata per il canto (una tritapalline di quelle inarrivabili) ci aveva fatto imparare a memoria nell’ordine: l’Inno di Mameli, l’Inno di Garibaldi, la Canzone del Piave e...Vecchio scarpone. Dovunque c’era una celebrazione arrivavamo noi, i piccoli cantori della I^ A, che cantavamo le canzoni care alla Patria, mentre le signore si commuovevano e i carabinieri si mettevano sull’attenti con grande nostro divertimento. Siccome ero piccolo, ma mica scemo, l’avvenimento che mi aveva colpito di più era stato quello del primo uomo nello spazio. La fotografia di Yuri Gagarin nella navicella Vostok 1, la nostra maestra (della quale, essendo un bambino sessualmente precoce ero segretamente innamorato) l’aveva appesa in classe facendomi sognare il mondo in bianco e nero che ritraeva. Ovviamente tutto il mio interesse, dopo quell’incredibile mese di aprile, si era riversato nello spazio e non perdevo occasione per farmi portare dai miei genitori al circolo Acli (dove c’era la televisione pubblica del paese), a vedere il telegiornale che, tanto per un ricordo affettuoso, in quell’anno iniziò ad essere diretto da Enzo Biagi mentre oggi c’è Minzolini. Lo spazio era entrato nei miei pensieri tanto che, unendo il nazionalismo delle celebrazioni per l’Unità e la Vostok, una notte avevo sognato di essere il primo italiano ad uscir fuori dall’atmosfera terrestre. Ovviamente anche i giochi di noi bambini risentirono di quella conquista, per cui sostituimmo le epiche e violente battaglie dei romani e delle giubbe rosse, con la più pacifica conquista della luna. La passione per lo spazio, che non ne voleva sapere di abbandonarmi, iniziò a fare la sua comparsa anche nella letterina (che per la prima volta scrissi di mio pugno) alla Befana. Non ancora travolta dal consumismo, l’Italia dei proletari nella quale mi identificavo, aveva due soli momenti nei quali i bambini potevano ricevere regali, uno era il compleanno e l’altro l’Epifania; per Natale al massimo c’era una tavoletta di cioccolato. La Befana era la vera festa dei piccini, e la storia dei tre Re Magi che avevano portato i doni a Gesù Bambino, l’unica che in qualche modo mi aveva intrigato del pallosissimo catechismo domenicale. Tutte le feste natalizie erano vissute nell’attesa di quella magica notte fra il 5 e il 6 gennaio, quando la vecchietta sulla scopa sarebbe entrata anche nel camino di casa mia e non solo in quello dei miei amici benestanti. Era la notte in cui dormire diventava davvero difficile, anche se non potevo fare altro che rigirarmi nel letto in attesa della mattina. Mia madre era stata chiara: “Se ti alzi e vedi la Befana, lei scappa e si porta via anche i giocattoli”. Assillato da quella paura, al minimo rumore infilavo la testa sotto le lenzuola per non correre il rischio di dar seguito alla mia curiosità che mi avrebbe imposto di andare a vedere cosa stesse accadendo in cucina. I primi di dicembre quindi, con grande difficoltà, scrissi la lettera alla Befana e la misi sotto il camino seguendo la prassi della consegna “aerea” che mi avevano insegnato. Compiuta l’operazione recapito restai in attesa di quello che la Befana avrebbe potuto fare per me la “sua” notte. Avevo chiesto, ovviamente, una navicella spaziale con la quale rendere un po’ più reali sogni fino a quel momento vissuti solo sull’album da disegno. Ero convinto che mi avrebbe accontentato, d'altronde fino a maggio non avrei chiesto più nulla. E la mattina del 6 gennaio arrivò con un sole splendente che rendeva accecante guardar fuori la neve che era caduta fino al giorno prima. Ancora vestito del mio pesante pigiama di flanella (ero un bambino fragile, purtroppo), mi alzai dal letto e andai di corsa verso il camino. C’erano tre scatole di diversa grandezza che mi aspettavano mentre mio padre stava prendendo il caffè, mia madre aveva messo a fare il sugo e mia nonna guardava sorniona la scena. Aprii la prima: un paio di scarpe con la para. La seconda: una sciarpa e un cappello di lana dello stesso colore. Mancava la terza. La scartai e l’immagine che mi apparve fu proprio quella di una navicella spaziale. Iniziai a saltare per la felicità e il primo pensiero fu quello che dovevo mostrarla ai miei amici per farli schiattare di invidia. Il rito dei bambini del paese, la mattina della Befana, era quello di ritrovarsi sui gradini del Duomo per far vedere a tutti i regali ricevuti. Fiero della mia navicella e con un sorriso smagliante, dopo aver indossato le scarpe con la para e la sciarpa e il cappello di lana dello stesso colore, mi avviai “padrone dello spazio” verso la chiesa. Non lo avessi mai fatto! In quel momento mi resi conto che perfino la Befana era una vecchia stronza classista. Le navicelle dei miei amici ricchi non solo era grandi tre volte la mia ma avevano anche le luci, i suoni e dentro c’era pure il pupazzetto di Gagarin. Con tutta evidenza i genitori proletari avevano acquistato la stessa navicella tirando sull’offerta “quantità”: piccola, un po’ stinta, all’apparenza usata. E lo stesso dovevano aver fatto i benestanti: grande, colorata, ricca di luci, con l’astronauta dentro anche se i suoni erano gli stessi delle automobili della polizia. Così formammo due gruppi. Da una parte la maggioranza dei bambini con le navicelle piccole, dall’altra i nostri amici con i loro “mostri” spaziali. Ma una piccola rivincita ce la prendemmo di lì a poco, quando arrivarono le bambine tenendo in braccio le loro bambole. La differenza di ceto e di classe sociale anche nel caso delle femmine era evidente. C’erano quelle con in braccio bambole enormi, bellissime e con vestiti da favola e ragazzine con bambole piccole, un po’ spelacchiate e con i vestiti cuciti a mano dalle mamme. Beh, le bambine con le bambole grandi si avvicinarono alle nostre piccole navicelle mentre le altre si fiondarono su quelle mega dei nostri amici ricchi sì ma decisamente imbranati. Eravamo poveri, eravamo sfigati, avevamo pure delle astronavi senza luci e senza suoni, però eravamo belli, un po’ stronzi, parecchio incazzati e con gli occhi di chi non si sarebbe fatto rovinare la Befana da un’astronave per ricchi, anche se con dentro Gagarin. Ma il mio personale trionfo fu definitivo quando si avvicinò la figlia del farmacista che mi disse: "Hai delle bellissime scarpe". E dire che avevo lottato mesi per una navicella spaziale.

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