Su Fuori Asse n. 6 è stato pubblicato questo mio articolo che ha per tema il romanzo “L’amante” di Yehoshua e in particolare il personaggio di Dafi. Qui si può scaricare la rivista.
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È una mattina dell’ottobre del 2007, me ne sto rannicchiato con le ginocchia alla gola sul sedile davanti di un vecchio taxi che ci porta dalla spiaggia del Poetto al Castello di Cagliari. Dietro di me c’è Abraham Yehoshua, sua moglie Ika e Alessandra, la mia compagna. Abbiamo appena consumato una granita al limone in un bar sulla spiaggia conversando di letteratura ebraica americana, e in particolare di Henry Roth, l’autore di Chiamalo sonno. Ho una foto di noi quattro seduti a quel tavolo con sullo sfondo un gruppo di uomini vestiti da ciclisti che sembrano divertirsi un mondo.
A un certo punto, durante il tragitto, Abraham indica a Ika una macchina, le mormora qualcosa e insieme sorridono; una risata zuccherina, gentile, come se la vista di quella macchina suscitasse in loro un ricordo felice. È una vecchia Fiat 600 color panna, una di quelle auto d’epoca restaurate e con la carrozzeria scintillante che avanza sfrontata nel traffico mattutino. “Assomiglia alla Morris di Gabriel”, gli faccio notare io, alludendo al primo romanzo di Yehoshua, L’amante, pubblicato nel 1977 e edito in Italia da Einaudi, che si apre appunto con la comparsa di Gabriel Arditi, un uomo che irrompe nella routine quotidiana di una famiglia di Haifa nel 1973, anno della guerra del Kippur, presentandosi all’officina di Adam, il protagonista, con una vecchia Morris da riparare. Abraham annuisce, guardando fuori dal finestrino, e mi risponde: “Però la Morris era azzurra”.
L’ho letto l’estate prima, L’amante, il più durante un soggiorno in un monastero in Umbria. È con questo libro che mi sono invaghito della scrittura di Yehoshua, prima ancora di poterlo conoscere di persona e di avere la fortuna di occuparmi di lui e di sua moglie nei tre giorni della loro permanenza a Cagliari, dove ci ritroviamo tutti quanti per partecipare a un festival letterario di cui Abraham è l’ospite d’onore. L’amante si dipana per monologhi, ogni capitolo è raccontato dalla viva voce di uno dei protagonisti. Si tratta di una soluzione stilistica mutuata, per stessa ammissione di Yehoshua, da Faulkner e che ci consente di entrare a pieno nella psicologia e nella personalità di ciascun personaggio. Fra questi c’è la figura della quindicenne Dafi, la figlia del meccanico Adam, che nel corso della storia diventa l’ossessione amorosa di un ragazzino arabo, Na’im, che si mette alle dipendenze di Adam e la cui vicenda rappresenta una perfetta metafora delle relazioni tormentate tra arabi ed ebrei.
Dafi è chiusa in un universo tutto suo, vive i conflitti tipici della sua età, su tutti quello con gli insegnanti, soffre d’insonnia ed è incapace di comprendere ciò che la circonda, i genitori, gli adulti, e soprattutto il mondo arabo (“Non sapevo che avessero nomi così semplici”, dice la prima volta che chiede a Na’im il suo nome). Un tratto tipico della letteratura israeliana è quello di saper investire di significato un personaggio apparentemente ordinario – e cosa c’è di più ordinario di un’adolescente in rotta di collisione con se stessa e col mondo? – fino a renderlo allegoria lampante della complessa condizione del popolo ebraico.
Yehoshua ce la fa conoscere senza grandi scosse, mostrandocela nella sua vita di ogni giorno, mentre fa visita alle sue amiche Osnat e Tali, o in classe, durante le ore di lezione, dove fatica a mantenere la concentrazione e per sopravvivere alla stanchezza causata dall’insonnia si trova costretta a cercare angolini appartati vicino ai gabinetti, posti di fortuna in cui tentare di dormire almeno un quarto d’ora per rimettersi in sesto. L’insonnia è il cuore del problema di Dafi, è la ragione per cui passa le giornate come fosse imbambolata, ma è anche la scusa che le consente di avere atteggiamenti strani e ostili, come quando si mette a pedinare per la strada dei poveri vecchietti con l’unico scopo di fargli paura.
Giocato sul timore e sulla diffidenza è anche il rapporto che lega Dafi a Na’im, il giovane arabo che lei, nel finale, significativamente chiama “quella dolce «Questione Palestinese»”. È proprio Na’im, che per tutta la durata del romanzo desidera Dafi scrutandola da lontano, l’unico che riuscirà a scalfirne la corazza. Così, mentre nelle ultime pagine i due ragazzi fanno l’amore nella casa deserta, sappiamo parola per parola ciò che Dafi pensa di lui: “Comincia ad ansimare […] come se dentro di lui ci fosse qualcun altro. Fa dei sospiri in arabo… Gli fa bene o gli fa male, non so…”
La straordinaria lezione di Yehoshua, ribadita anche nei suoi romanzi successivi, è che le grandi questioni politiche e sociali sono già tutte nell’alambicco di una storia di famiglia. I legami di sangue, le relazioni che sbocciano nel cuore silenzioso di una casa, sono sempre le prime scintille che creano le condizioni per i mutamenti che avvengono nella società, sono gli incipit che aprono nuovi capitoli nella storia dei rapporti fra i popoli. Così, un piccolo ma indimenticabile personaggio come Dafi, senza fare nulla di eccezionale, si erge a metafora di una condizione difficile di coabitazione, diventa un medium di speranza.