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Quella nostalgia del dirigismo che soffia dall’Europa centro-orientale

Creato il 05 dicembre 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Quella nostalgia del dirigismo che soffia dall’Europa centro-orientale

Benché siano passati più di vent’anni sono ancora in moltissimi a considerare il crollo del Muro di Berlino, dell’Unione Sovietica e di tutto il blocco comunista come una grande “vittoria”, sebbene il capitalismo non sia finora riuscito ad offrire un qualcosa di valido in alternativa. Così è emerso e si è consolidato uno scenario nel quale i protagonisti sono la finanza globale; la crisi sociale che si accentua, gli squilibri demografici che lievitano; il cambio di mentalità secondo il quale la felicità vera risiede nella possibilità di consumare.

E’ stato stravolto il concetto di valori che sono considerati il fondamento della società. Uno dei risultati è che ogni giorno in Europa vengono cancellati migliaia di posti di lavoro, senza che alcuno si batta per difenderli, a meno che non sia minacciato il proprio interesse personale. Accade che le lotte siano diventate esclusivamente di categoria, con la tendenza ad evitare che alcunché le subordini a qualcosa di più generale. Pertanto in un mondo nel quale gli insoddisfatti si addizionano, ma non si aggregano l’etica della responsabilità individuale non è più considerata un valore, dal momento che le regole di comportamento le stabilisce il mercato.

Insomma, nel mercato tecnicizzato e globale non c’è più spazio per l’agire, ma soltanto per l’eseguire. La nuova realtà prevede appunto che ciascuno esegua azioni già descritte e prescritte dall’apparato che governa, il quale non fa altro che applicare le regole dettate dal mercato. Non esiste altra ideologia. Non a caso Hans Tietmeyer, ex governatore della Banca centrale tedesca, avvertì già nel 1998 che accanto al plebiscito delle urne esiste il «permanente plebiscito dei mercati mondiali» che da sempre condiziona.

Dopotutto ci sono molti modi per limitare la libertà, anche senza l’uso della forza. La manipolazione dell’informazione, le pressioni implicite, l’esaltazione del conformismo, del perbenismo, l’esasperazione della crisi economica sono richiami efficaci per indurre la gente ad allinearsi. Sono questi i condizionamenti che poi alimentano le crescenti forme di radicalismo e di eccesso di semplificazione diventate di uso comune. Infatti, “per vendere ti devi fare notare” è l’imperativo oggi di moda che ha contagiato anche il mondo intellettuale. Poiché nella nuova realtà anche le idee sono merci e in tempi di “crisi economica” è fortemente sconsigliabile esprimere un’idea che non venda. E dunque un’analisi di un fatto, un’opinione, un consiglio che si collochi in una posizione intermedia va decisamente accantonato, poiché è risaputo che sarebbe travolto da una valanga di opinioni estreme sempre espresse con un’arroganza fino a prima sconosciuta. Infatti le sfumature oggi raramente colpiscono. Meglio le affermazioni forti, destinate a fare audience in televisione.

Se si tengono a mente questi scenari meglio si capisce l’escalation del populismo nel dibattito politico e sociale, la crescente assertività e aggressività nell’argomentare che ostacola non soltanto il dialogo, ma anche l’autocritica senza i quali lo spazio intellettuale e quindi la libertà d’opinione di molto si riducono. Se così non fosse i governi – quelli più incalzati dal debito pubblico – difficilmente avrebbero potuto imporre, senza opposizione alcuna, nuovi costi sociali e personali, sotto forma di smantellamento dei sistemi di protezione sociale e di peggioramento delle condizioni di lavoro di cui hanno goduto per almeno due generazioni.

Insomma, la capacità straordinaria del sistema finanziario mondiale di recuperare a proprio profitto ogni cosa che possa, «attirare l’attenzione, o distrarre, o far pensare ad altro, o più precisamente ad impedire di pensare», come ha scritto Alain de Benoist (uno dei maggiori esponenti – guarda caso – della destra francese) ha prodotto la più grande disuguaglianza di reddito nella storia del mondo industrializzato. Sicché s’è venuta a creare una nuova scala dei valori – enfatizzata dai grandi mezzi d’informazione – nella quale le azioni non sono più classificate come morali o immorali, ma sono esaltate soltanto se supportate dal potere politico e dalla forza del denaro. Senza tema di un contraddittorio poiché le voci critiche soprattutto a livello accademico, sono state dissuase o addirittura soppresse.

Paradossalmente la più grande vittoria del capitalismo sta proprio nell’aver persuaso le genti che esso non pretende di essere perfetto, ma – come dicono i tedeschi – semplicemente alternativlos, cioè privo di qualsiasi alternativa. L’invito è ad accontentarsi di quello che si ha, altrimenti – è un timore diffuso – si rischia il caos perché, come ricordava Hegel commentando la sconfitta di Napoleone a Waterloo, la vittoria è potente «soltanto quando ha un progetto politico e sociale da proporre».

Quindi non c’è da stupirsi se nel centro Europa l’idea socialista sopravviva ancora, sebbene non sia ancora riuscita a riorganizzarsi come forza capace di riempire il vuoto lasciato dal capitalismo. Lo si è visto nella Repubblica Ceca dove alle elezioni politiche dell’ottobre scorso il Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSCM) ha sfiorato il 15 per cento, assicurandosi 33 seggi e la seconda migliore prestazione elettorale dal 1990.

Quello che è accaduto a Praga è un segnale di come gli elettori, indignati dalla incapacità della politica di dare risposte adeguate, scandalizzati dalla corruzione che dilaga anche nei centri del potere di quel Paese, ne avessero abbastanza dei ventitré anni di sperimentazione liberale e aspirassero al ritorno di uno Stato forte, in grado di farsi carico dei loro problemi. Sicché quanto è accaduto nella Repubblica Ceca è la prova più evidente che la democrazia liberale nell’Europa centrale è diventata la più grande vittima della crisi. Il modello che univa l’economia di mercato a una vasta gamma di servizi sociali, e che aveva trasformato l’Europa in un punto di arrivo per milioni di persone provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America del Sud non regge più. Dopotutto, su entrambe le sponde dell’Atlantico i fanatici dell’austerità proseguono nella convinzione che soltanto ingurgitando pillole amare possiamo sperare in una prosperità futura.

La prosperità per chi? si chiede il Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz. Nel suo saggio Inequality Is a Choice (Il Prezzo della disuguaglianza) egli dipinge uno scenario nel quale appare un mondo diviso non soltanto tra chi ha e chi non ha, ma anche tra i Paesi che non fanno nulla al riguardo e quelli che fanno qualcosa. Sicché, «alcuni Paesi avranno successo nel creare una prosperità condivisa, l’unico genere di prosperità che ritengo davvero sostenibile. Altri lasceranno che la disuguaglianza finisca fuori controllo. In queste società divise, i ricchi troveranno riparo in comunità chiuse, quasi completamente separati dai poveri, le cui vite risulteranno loro incomprensibili, e viceversa», avverte Stiglitz.

Naturalmente, è difficile dire se ci stiamo avviando verso la fine della democrazia liberale e, con essa, anche dell’economia di mercato. Certo è che in questa situazione generale di impoverimento le classi medie europee, almeno quelle più disastrate dalla crisi economica, sono arrivate al punto di mettere in discussione la democrazia e di considerare le relazioni con gli altri paesi, nell’Ue e altrove, come un gioco a somma zero. Si tenga a mente appunto che nei paesi ex comunisti dell’Europa centrale, che sono stati fino a ieri i più devoti sostenitori del capitalismo, molti sono ora i segnali premonitori di un’inversione di tendenza, poiché il controllo politico dell’economia ha riportato di moda lo Stato forte con il complice consenso della pigrizia dei media che girano intorno ai problemi come gattini ciechi.

Una moda che rischia di essere contagiosa, anzi lo è già. Infatti, i governi Ue di fronte all’emergenza denominata “debito eccessivo dei bilanci pubblici” hanno imboccato la strada che il sociologo Luciano Gallino chiama “dell’autoritarismo emergenziale”, indispensabile per tenere mogi i cittadini. Accade che le misure da intraprendere per sopravvivere alla crisi siano concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri supportati dalla Bce e dall’apporto esterno del Fondo monetario internazionale (Fmi). Un esempio tra i tanti – è storia recentissima – le misure da adottare sulla quantità di acqua necessaria per tenere puliti i bagni e gli orinatoi degli europei. Le cronache narrano che sono stati spesi più di 89 mila euro nelle ricerche. Nel corso delle quali sono state analizzate persino le differenze geografiche nell’Ue per quanto riguarda il consumo di acqua per pulire i bagni (gli italiani sono al secondo posto, prima dei tedeschi e dopo gli inglesi). Alla fine la Commissione europea ha stabilito che nell’Europa Unita ogni sciacquone non dovrà contenere più di cinque litri di acqua: pena il crollo dell’euro, dei bilanci sovrani, dell’intera economia europea. Non rimane che crederci.
Vincenzo Maddaloni
www.vincenzomaddaloni.it


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