(c) 2013 weast productions / Amira Al Tahawi, giornalista
Domani, nella Regione, racconto dal Cairo, di cui pubblico qui il (solito) estratto. Nell'articolo conoscerete anche Amira, una giornalista egiziana che, fra i pochi rimasti, pensa con la propria testa. Sul largo vialone che conduce a Piazza Ramsìs sono rimaste centinaia di pietre, abbastanza per farci una guerra. I muri dei pilastri che sostengono il cavalcavia sono butterati dai proiettili. Tira una strana aria, in realtà è la solita : quella che puzza di violenza, di odio. E che pesa, sui polmoni : una melassa catarrosa che non la sputi fuori più. E c’è, in quest’aria, la vibrazione bassa e costante della consapevolezza che aggredisce i civili prigionieri della violenza, come una malattia che non guarisce : morire così non ha senso. Hai voglia a convincere una madre che suo figlio è un martire ed è morto ammazzato per una causa. Non passa. Non con le madri. Non con quella che tiene gli occhi bassi e appena il mio corpo diventa ombra sul marciapiede, alza lo sguardo e me lo posa sopra. Ed è uno sguardo dentro il quale precipiti, portato via dalla vertigine della caduta che prende velocità e non vuole finire. Non finisce. Lesh ?, sussurra la donna. Perché ? Una domanda che ha un significato duplice : perché ammazzarlo, mio figlio, che aveva ventidue anni ? E perché farsi ammazzare, a ventidue anni, per che cosa ?