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Quella vaga cappa chiamata camorra.

Creato il 28 maggio 2012 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Quella vaga cappa chiamata camorra.Il fatto è che se ascolti un neomelodico in auto mentre vai al ristorante e ti trovi a Napoli, non pensi alla pizza che mangerai ma alla catena con il crocifisso che spunta dal petto villoso dell’uomo che ti indica dove parcheggiare. Chissà perché le note che ascolti, che ti infastidiscono, e il crocifisso da tre etti abbondanti che spunta dalla camicia bianca a righe blu, fanno pendant. Troppi film? Troppi luoghi comuni? Troppi pre-giudizi? Non lo sappiamo però è quello che abbiamo di fronte, ciò che ci appare in quel momento. I gesti dell’uomo sono quasi sussiegosi, ti fanno sentire importante. La gentilezza con cui ti accoglie, mentre apre lo sportello per farti scendere, è sospetta ma solo perché non te l’aspetteresti da un corpo di quelle dimensioni. Il luogo dove ci troviamo non è segnato, nelle guide turistiche intelligenti, fra quelli più tranquilli della città e il ristorante, quel ristorante in particolare, lo sanno tutti che non appartiene a un gourmet. L’ingresso è paradigmatico, volendo ci si legge la storia della famiglia del proprietario e delle famiglie che in quel luogo hanno celebrato battesimi e prime comunioni, cresime e matrimoni e, a quello che ci dicono, anche qualche funerale. Abbiamo paura a muovere passi perché nonostante siamo in “buona compagnia”, l’impressione è che un piede messo dove non si dovrebbe potrebbe causare un putiferio. Inutile. Pensiamo che nelle cucine, insieme al pesce, alla carne e alla mozzarella di bufala conservino nei frigoriferi anche qualche kalashnikov ma è un momento, un flash alla Gomorra e nulla di più. Una psicosi savianiana-garroniana. Colpisce il tavolo che ci hanno assegnato e che il cameriere sta sgombrando dai resti del pasto di chi ci ha preceduto. E colpisce che la tovaglia pulita con cui lo sta apparecchiando venga messa sull’altra, quella sporca. E allora pensi che anche da quelle parti, come sta accadendo sempre più spesso in Italia, basta mettere una tovaglia bianco candido sopra una sporca e tutto sembra lindo mentre invece... È la teoria della polvere sotto al tappeto, lo sporco si annida dove meno te lo aspetti e quello che in apparenza appare come un ambiente quasi asettico, alla fine è un merdaio pieno di germi e batteri. Il maitre, vestito in un completo nero inappuntabile, prende le ordinazioni restandoci male quando gli chiediamo una Coca Zero invece del vino: “’omm’e’ mmerda”, avrà pensato, ma non importa. Ci interessano invece le storie che una donna che ci ha raggiunto, e che si è seduta al nostro tavolo, ci racconta in un italiano che non risente delle sue origini made in Spaccanapoli. E quelle storie sono frammenti comportamentali, quasi chiavi per una possibile comprensione di dove ci troviamo senza arrivare a facili, banali e scontate conclusioni. Il cameriere è gentilissimo: “Non è nella sua natura, la gentilezza – ci dice la signorina – è che da queste parti, e per questa cultura, chi paga è padrone e ai padroni si risponde sempre di sì”. Il “chi paga” non scorre via come parole qualsiasi. È un concetto assoluto, un assioma. Il cameriere che ci sta portando la Coca Zero, il vino, l’acqua minerale e un cestino con il pane e i grissini è servo di chi lo paga e siccome anche noi, saldato il conto, contribuiremo al suo stipendio, è anche servo nostro. Molto professionale, abituato evidentemente a servire banchetti più complessi, in un colpo solo ci porta tutto quello che abbiamo ordinato, alla fine ci sorride pure ma l’impressione è che anche quella smorfia rientri nel prezzo. Ciò che quel posto rappresenta però, lo si percepisce dalla gente seduta intorno che mangia a bocca piena e che parla sottovoce, che compie piccoli gesti muovendo nell’aria la mano che tiene la forchetta e si guarda intorno come se avesse paura di essere tenuta sotto controllo o, peggio. Apparentemente è tutto nella norma, tutto segue la ritualità che solitamente accompagna il mangiare in un ristorante. Poi ti rendi conto che quella è una zona franca quando un signore grasso e ben vestito, si accende una sigaretta proprio sotto il cartello “vietato fumare”. Sarà anche un vezzo o una dimostrazione di “potere”, ma quel gesto la dice lunga sul significato che la parola “legge” rappresenta in quel posto. Il cartello c’è. Riporta anche l’articolo che si violerebbe nel momento in sui uno si mettesse a fumare ma non importa. È un optional. Come la fattura a fine pranzo che non riporta né data né numero progressivo, come il maitre che arriva e ci dice: “Signori grazie. Siete nostri ospiti”. Non serve dire che preferiremmo pagare. Il fumatore grasso e ben vestito ci guarda, ci sorride e ci dice “buongiorno”. L’auto che avevamo parcheggiato fuori, e che il nostro amico aveva lasciato aperta è ancora lì. Sarà un’impressione ma ci sembra più pulita di come la ricordavamo fino a un’ora prima. Ma fuori non c’è nessun tappeto sotto il quale nascondere la polvere. C’è solo la polvere.  

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