Magazine Diario personale

Quelle notti son proprio quel vizio che non voglio smettere, smettere, mai

Da Iomemestessa

Mi ci ha fatto riflettere pensierini, col suo commento a questo post (chapeau, madame).

Impegnata com’ero a cercare pagliuzze negli occhi altrui, non mi son curata della trave palesemente conficcata nel mio.

Nel puntare l’indice (una delle attività più semplici in assoluto) contro la società (in)civile e la politica (sconcia e laida, e non parlo solo del malaffare), ho colpevolmente trascurato tutti noi che facciamo impresa.

Quando dico noi che facciamo impresa, intendo tutto quel mondo che ogni mattina si alza e tra un tablet e un aeroporto, un casello autostradale e una conference call, muove soldi. Pure parecchi, a volte.

Molti pensano impresa, e si vedono davanti il maglioncino blu di Marchionne (di cui non si dirà mai male abbastanza, ma un giorno di questi vi rallegro, promesso). In realtà, impresa è anche (in Italia, soprattutto) un tessuto sociale di sostanziale brava gente che si fa un culo così.

E che, spesse volte, è comunque migliore di quanti ci governano o fanno impresa ad altissima quota. Posso assicurarvi che esiste una correttezza, umana e personale, nel mondo imprenditoriale, che lascerebbe senza fiato, in questo Paese allo sbando.

Vedo quotidianamente i piccoli eroismi che molti fanno per restare aperti e competitivi, per salvare posti di lavoro, quando, se chiudessero, potrebbero aspirare ad una vita, in comparazione, migliore.

I posti di lavoro, è facile tagliarli per Marchionne, che taglia appunto dei numeri, ma in certe officine meccaniche con 30/40 dipendenti, credete sia facile dire al Giovanni, che lavora lì da trent’anni, e con cui magari ti fai un caffè alla Proloco il sabato, che da domani lo lasci col culo per terra e con la pensione che ormai è un miraggio? Facile un cazzo, credetemi. E si tenta di galleggiare, tutti insieme sulla scialuppa, buttando fuori l’acqua coi cucchiaini.

Ecco, diciamolo chiaramente, una volta per tutte. Ci facciamo un mazzo così. E se andassimo a vedere la mera remunerazione di questo gran mazzo, il gioco non varrebbe la candela. Ci sono però altre cose che non hanno un valore monetario, ma pesano comunque (l’ambizione, la soddisfazione nel vedere un lavoro ben fatto, l’applauso in piedi quando porti a casa una commessa importante). Tutto fa nella vita.

Però non lo comunichiamo. Il nostro essere perbene (perchè lo siamo, sapete? Non sempre, ma spesso), il nostro impegno full time (e anche oltre) lo nascondiamo tra le pareti degli uffici, sulle scrivanie, negli aeroporti. Ma non lo comunichiamo.

Siamo totalmente avulsi dalla società civile. E non ce ne frega niente che la società civile sappia chi siamo e cosa facciamo. Transitiamo. Al massimo, ci occupiamo di trasmettere qualcosa ai nostri figli, se non siamo troppo stremati per farlo, la sera.

Mi rendo conto, spesso, che i ragazzi ci vedono per come appariamo. Bei vestiti, belle macchine, lo smartphone e il tablet. E pensano ‘figo, le voglio anch’io quelle cose’. La roba, appunto. Peccato che dietro la ‘roba’ ci siano lavoro, studio, cultura. Fatica vera. Fisica e mentale. Ci siano pomeriggi in linea di montaggio, a gelarti il culo per capire quale sia il problema. Figli gestiti con incastri che il Tetris in confronto è una cazzata. Weekend andati a puttane. Nottate sulla tastiera, a tentare di mettere insieme un’offerta e non mancare la dead line, che dietro a quella fottuta offerta ci sono 5 mesi di possibile lavoro per 500 persone, mica cazzi. E non sono solo i soldi, o i possibili bonus per te a tenerti la mente in tiro (beh, quelli, un pochino, magari, sì, siam professionisti, mica santi minori), è la responsabilità che ti senti sulla schiena. Quella che certe notti ti fa svegliare alle 4. E non c’è più verso, cazzo, di riprendere sonno.

Viviamo in universo parallelo, ci siamo disconessi, il server non ci piaceva e abbiamo deciso di fottercene. Ci lagniamo della realtà circostante, ma non trasmettiamo nulla. Non facciamo nessun passo dentro o verso la società civile. E quelli che lo fanno, il passo, son sempre i peggiori. Perchè quel passo lo fanno solo ed esclusivamente per ragioni deteriori. Perchè intavedono qualcosa che li renderà più ricchi, più protetti, più osceni. E noi rimaniamo lì, inerti, a vedere i Lavitola, e i Silvio B., i faccendieri, le svalvolate, le troie di regime, i servitori di due (e a volte tre o quattro) padroni e tutti quei laidi che le cronache ci servono all’ora di cena.

E ce ne restiamo lì, sulla tolda della nave che affonda. Ad ammirare tutta la merda che ci circonda. Senza muovere un dito. Senza prendere posizione. In attesa di qualche improbabile messia. Colpevoli quanto e come gli altri. Forse di più. Perchè pur sentendo il lezzo, ci siamo limitati a turarci il naso, anzichè tirare lo sciacquone.


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