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Quelli che Beppe Viola anche solo come nome

Creato il 08 luglio 2013 da Massimo
Quelli che Beppe Viola anche solo come nome

Beppe Viola con la figlia Marina, mentre cercano di guardare entrambi qualunque cosa, fuori che l’obiettivo

Diciamo la verità: quanti di voi conoscono Beppe Viola? Beppe Viola inteso anche solo come nome. Rispondo io: tanti, ma non tutti. Ad esempio tutti conosciamo i nomi dei colleghi con cui Beppe Viola si è trovato a condividere una Milano prima che iniziasse a bere: Enzo Jannacci, Cochi e Renato, Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Teo Teocoli e molti altri ancora fino quasi a popolare un romanzo. Tanti conosciamo il Beppe Viola giornalista, autore, sceneggiatore, inventore, aggiungete voi le attività mancanti. Tuttavia pochi, mettiamo le sue quattro figlie, conoscono Beppe Viola anche come papà.

Ed è proprio con “Mio padre è stato anche Beppe Viola” che Marina Viola, seconda di quattro figlie di Beppe (in ordine di apparizione: Renata, Anna e Serena) scrive il suo primo libro, non tanto in memoria del suo papà, ma proprio per il suo papà, e per i tanti – ma non tutti – che lo hanno conosciuto e che ora, a distanza di anni trentuno dalla sua prematura scomparsa, viene messo così nero su bianco che se uno conoscesse Beppe Viola anche solo come nome, poi finisce che lo conosce proprio come uno di famiglia, fino quasi a vederselo davanti, sigarette (plurale) in bocca, occhi piegati all’ingiù, ossignùr: roba da non credere.

Ad esempio com’è possibile credere che un genitore (mettiamo Beppe Viola) possa uscire dal lavoro per andare a comprare con la figlia – Renata, anni dieci – la sua prima bicicletta per poi dirle: “Adesso torni a casa da sola. Segui i cartelli che indicano Linate, e se ti perdi, chiedi.” Poi, tornare al lavoro.

Com’è possibile, per continuare sulla strada del pallone, che un padre, per la prima volta allo stadio con la figlia – Anna, anni sei – possa rispedirla ai cancelli indicandole la via del ritorno con un biglietto della metropolitana in mano, solo perché a inizio partita aveva chiesto: “In quale squadra gioca quello tutto vestito di nero?

Com’è possibile, tanto per continuare in autostrada, che un padre (facciamo finta che sia sempre Beppe Viola) ansioso per via dell’imminente partenza per le vacanze estive, con una famiglia che se la prende comoda e una figlia – sempre Anna – che sorseggia con calma una tazza di caffellatte, gliela svuoti sulla testa per poi esclamare: “Io vi aspetto giù”?

Ma soprattutto: come può un uomo, un uomo di una tale levatura, spirito e intelletto, un autore di testi come “Quelli che…” oppure “Vincenzina davanti alla fabbrica” possa sollecitare la figlia – Marina, nove anni – a prendere subito il primo taxi per raggiungerlo in Rai, solo perché stava registrando una trasmissione con Umberto Tozzi?

Si tratta di interrogativi che meritano una riflessione. Non ricordando la domanda precisa, la riflessione è questa: non saprei. L’unica cosa che so, è che Marina Viola, insieme alle sorelle, insieme alla nonna Cicchinina (che non ha mai conosciuto, ma per intenderci “la nonna Cicchinina era quella che accompagnava l’amica timida dal ginecologo e tornando verso casa le diceva che, mentre si rivestiva, il medico le si era avvicinato per dirle di essere rimasto fulminato dalla bellezza della sua bernarda”) ma soprattutto insieme alla madre Franca – conosciuta da Beppe quando erano bambini, al piano di sopra del suo stesso palazzo, rimasto in piedi anche dopo avere cambiato casa, per via del suo essere colonna portante che se togli quella crolla tutto – è cresciuta in una famiglia di sole donne tranne una, Beppe Viola, spesso assente da casa per mestiere o per passione (le scommesse coi cavalli, tanto per dirne una, o le partite a carte, che, per come la vedeva lui, potevano cambiare il giudizio di una persona a seconda di come si muoveva sul campo – verde – di gioco) ma quando era nei paraggi, quello strano essere chiamato papà, si faceva sentire a suon di dolcezze, incomprensioni, parole dette, non dette, scritte e lasciate sul comodino, accarezzate, baci schioccanti, lacrime, mal di testa, brividi, fuochi d’artificio.

Chi non aveva la fortuna d’incontrare Beppe Viola dentro le mura domestiche, poteva avere sempre la (s)fortuna d’incontrarlo fuori. A tale proposito potrebbe dirci qualcosa una certa suora, che incontrata su una spiaggia mentre le figlie, ancora bambine, facevano il bagno e giocavano senza costume, fece andare Beppe su tutte le furie. “Quelle sono il diavolo.” Udì dalle parole della suora. Così che le si avvicinò deciso, e dopo essersi assicurato che lei, gli altri bagnanti e tutti i bambini avessero gli occhi puntati sulla scena, si tirò giù il costume e disse: “Sorella, se proprio vuole vederlo, eccolo, il diavolo…

Diavolo d’un Beppe Viola, che era già diavolo a sedici anni, quando con la sua prima filarina invece di andare a scuola andava in camporella, ma nel pomeriggio lei studiava mentre lui andava a giocare a biliardo, finché a fine anno, davanti alla promozione di lei e alla bocciatura di lui, commentò: “Ma come respinto? Se non mi conoscono neanche? Avrebbero dovuto scrivere disperso.”

Io credo che Beppe Viola cominciò ad essere un grande commentatore proprio iniziando a commentare episodi del genere. Solo che anche volendo non glielo posso chiedere. E a pensarci bene non glielo può più chiedere nessuno, dato che il 17 ottobre del 1982, una domenica, al termine della partita Inter-Napoli, per la cronaca – quella che stava montando nella sede Rai di Milano – finita 2 a 2, Oriali, rigore di Altobelli, negli ultimi 4′ Criscimanni e Marino, Beppe Viola si lasciò andare a un inctus celebrale: aveva 42 anni, mentre la figlia Marina ne aveva appena compiuti 13, e il suo primo pensiero davanti a un termine del genere, ictus, andò alla cosa più vicina a lei in quel momento: un cactus.

Commentava lo sport ma non era mica un gran sportivo Beppe Viola, frequentava pasticcerie, salumerie, bar e osterie. Aveva il “gozzo che ride” ma sapeva che l’indomani l’avrebbe chiamato il fegato al telefono. Non era nemmeno un papà modello Beppe Viola, di quelli che quando li vedi camminare per strada coi figli pensi, guardalo lì, che bravo papà. Però era un papà che estrapolato dalla sua immagine pubblica lo proietta in una dimensione familiare così familiare che davvero ti senti un po’ di famiglia anche tu. E allora se ti senti di famiglia, e leggi le cose che sono capitate alla tua famiglia che non è la tua, t’immedesimi così tanto che davanti a certe scene ti commuovi, poi ridi, poi dopo un po’ ti commuovi di nuovo, torni a ridere e per non sembrare schizofrenico cerchi di finire in fretta il libro e buttarlo dalla finestra, che altrimenti ti tocca ricominciarlo da capo.

Allora grazie a Marina Viola che col suo stile diretto, senza fronzoli, lontano da preziosismi letterari o chissà quali altri espedienti strappamutande, ha scritto un libro pieno di aneddoti, ricordi, fotografie a memoria di figlia, a memoria di amici, a memoria di fratelli che poi sono gli amici, consegnandoci a mani basse l’umanità di una famiglia travolta da un uomo che come ha spiegato Diego Abbatantuono durante la presentazione milanese, “era così avanti, che essendosi fermato subito, è rimasto sempre avanti.”

Non credo che sia questo il modo migliore per fissare il proprio posto nella storia, però chi ha dei dubbi che provi a fermarsi anche lui a Beppe Viola anche solo come nome: poi vediamo dove arriva.

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