Se potessimo guardare in faccia la realtà resteremmo inorriditi dal suo volto tremendo, privo di tratti e di lineamenti, e saremmo accecati dai suoi raggi luminescenti. Se poi provassimo a tuffarci in essa senza elementi di “galleggiamento” o appigli di una certa resistenza cadremmo in preda ai suoi vortici incontenibili e finiremmo alla mercé delle sue potenti correnti che ci trascinerebbero a fondo con tutti i nostri poveri sensi. Un bagno di realtà, come si dice in gergo, è un’assurdità mortale, ciò che condurrebbe dritti alla follia. Se qualcuno vuole seguire Nietzsche si accomodi a sue spese.
La realtà resterà sempre inintelligibile per gli esseri umani, che non sono fisicamente attrezzati ad immergersi in essa senza i dovuti accorgimenti, peraltro anche questi di portata limitata e transitoria. Siamo sempre fuori dalla realtà ma questo non significa che non possiamo essere, a nostro modo, a contatto con essa. Gli strumenti che, di volta in volta, abbozziamo per interpretare la realtà sono sottoposti, dalla natura stessa del reale, ad una mutevolezza inarrestabile. La realtà ci sfugge perché è precipitazione da ogni lato e in ogni direzione delle cose del mondo, di cui possiamo scorgere solo pochi aspetti, pochi elementi, anche distinti nel tempo, ricorrendo a finzioni del pensiero e dell’azione, a strutture ipotetiche costruite dalla mente, la cui concretizzazione non corrisponde in toto all’iniziale concepimento, di cui sperimentiamo l’efficacia e la validità in varie fasi. Per questo nulla si dà per sempre allo sguardo umano nella mondanità. Eppure, ci attacchiamo alla nostre convinzioni come se fossero inossidabili e perduranti, trasformiamo posizioni contingenti in verità assolute pretendendo che siano gli oggetti ad adattarsi alla nostre misere sollecitazioni. (Peraltro, anche il dualismo soggetto-oggetto, è un misero paralogismo da perditempo che suggella l’inutilità del pensiero dialettico, il quale rincorre una impossibile unificazione del rapporto tra i due termini nel reciproco “superamento conservativo”. Tale fantomatica opposizione, difatti, non chiarisce l’arcano dicotomico poiché il problema è decisamente mal posto, essendo il soggetto un oggetto e viceversa, cioè essendo entrambi fatti della stessa natura pur non essendo la stessa cosa. Sempre ammesso che sia corretto declinare queste categorie al singolare e non al plurale, evidenziando molto meglio la complessità del reale, parlando appunto di soggetti e di oggetti). Quando questo accade anche una buona idea, una primigenia intuizione carica di possibilità e di novità interpretative, che per un certo periodo ha funzionato come una efficace bussola per orientarsi tra gli eventi e indirizzare i movimenti sociali, degenera in cattiva ideologia che ci scaglia fuori strada. Mi fanno ridere quelli che ci accusano di avere tradito il marxismo solo per aver descritto e compreso l’inoppugnabile. Il marxismo, come ogni teoria scientifica, è stato tradito dall’evoluzione degli eventi, quelli che non ha previsto (e non poteva), previsto male (per limiti intrinseci ed estrinseci), o anticipato solo in parte (perché la teoria sceglie le sue priorità che, successivamente, in un’altra epoca, diventano secondarietà). Così è e sempre sarà, per ogni sistemazione teoretica sulla faccia della terra. Ma torniamo al tema principale quello della realtà “fuori sé” (ricordando che “in sé” la realtà è inconoscibile per gli uomini, essendo continuo flusso squilibrante), cioè quello delle sue “stratificazioni” discernibili. Poiché, come detto, non ci è dato immergerci nella corrente, cogliamo determinate manifestazioni fenomeniche generate da essa sulla superficie sociale e cerchiamo di inferire le dinamiche più profonde, sotto la corteccia di detti eventi, che ugualmente sfuggono alla vista nei loro fondamenti, ma di cui possiamo concepire la legisimilità. Gianfranco La Grassa è ricorso spesso ad una metafora per mostrare questo scarto tra realtà epidermica, quella che si percepisce grazie ai sensi, e stadio più profondo della stessa, al quale si giunge per via astrattiva, a cagione di rigorose analisi scientifiche. Marx era sulla medesima linea quando affermava che se fenomeno ed essenza coincidessero sempre non ci sarebbe bisogno della scienza. Nelle parole di La Grassa:
“Diceva però Marx che è inutile ricorrere alla scienza se ci si ferma alle apparenze, ad esempio a quella del Sole che gira intorno alla Terra. Per migliaia e migliaia d’anni, gli uomini sono vissuti bene, e hanno fatto buoni progressi, convinti di essere al centro dell’Universo, immobili; e si orientavano, nei loro spostamenti, prendendo a riferimento il “movimento” del Sole nella sua orbita. Anzi, per tantissimo tempo, si è pensato che il Sole andasse anch’esso a coricarsi e riposarsi di notte per poi riprendere ristorato e baldanzoso il suo lavorio diurno. Il problema che si pone è allora quello di sempre: si ritiene che non ci fosse bisogno di sapere come stanno in realtà le cose in merito al movimento degli astri? La sua scoperta, il continuo studio cui vengono sottoposti i cieli, sono ritenuti un progresso, oppure una inutile mania degli uomini di andare a ficcare il naso dove non compete loro? Domande per me retoriche; temo però che per alcuni dementi, di cui comincia ad essere troppo popolato questo paese, non lo siano altrettanto”.
Secondo La Grassa la teoria ci permette di: “fissare strutture relazionali tra elementi “ritagliati” analiticamente, anche se il reale non ha struttura, va semmai pensato quale insieme di flussi e vibrazioni, per stabilizzare il campo d’indagine. Nell’ipotesi lagrassiana viene assegnata priorità allo squilibrio perché “è sempre lo squilibrio il dominatore, pur quando non lo avvertiamo “sensitivamente”. Dobbiamo averne coscienza; e nel contempo essere consapevoli che di esso non si dà quella che noi chiamiamo normalmente conoscenza. Se qualcuno pensa di potersi veramente immedesimare nel flusso squilibrante tramite pratiche di pensiero o altre, che a mio avviso hanno sempre un che di misticheggiante, non ho alcuna intenzione di deriderlo. Sarebbe inutile perdita di tempo. Dico solo che dovremmo utilizzare argomentazioni prevalentemente razionali – e che prendano in ogni caso le mosse da quanto noi avvertiamo di sensibile nel mondo circostante; in senso lato, sia chiaro, poiché più spesso filtriamo e interpretiamo le informazioni ricevute di una realtà lontana nel tempo e nello spazio – pur se esse non sono in grado di riprodurre la realtà del flusso in oggetto. A mio avviso, nella conoscenza – e non mi riferisco solo a quella detta scientifica – ci si pone come individui attivi, appunto come agenti. Si tratti di conoscenza del primo e più immediato grado della riflessione (quella empirica), oppure di gradi via via più elevati, cambia il livello di “finezza” della trama su cui poi si costruisce l’ordito delle nostre pratiche d’azione. In ogni caso, noi sempre stabilizziamo – e dunque fermiamo, fissiamo, in strutture formate da elementi interrelati – i campi in cui poter svolgere tali pratiche, che si condensano in apparati, organismi, istituzioni vari. Piaccia o non piaccia, nella conoscenza viene prima di tutto la teoria. A volte non ci si rende conto di tale fatto perché, al livello della prima riflessione immediata (“sensitiva”), l’uomo d’azione è convinto di stare svolgendo solo attività pratica; invece, è semplicemente fermo al primo livello della riflessione teorica, che in molti casi è sufficiente, anzi può persino essere indispensabile per non perdere tempo e reagire immediatamente a contingenze di breve momento, in cui non si deve indugiare. Tuttavia, la teoria prosegue sempre con vari livelli di riflessione; in quest’ambito ho parlato di “superficie” e “profondità”, di “davanti” e “dietro”, ecc. In senso proprio, esiste soltanto il livello del flusso squilibrante, di cui si deve prendere coscienza per non irrigidirsi poi in teorie scambiate per l’ormai piena o sufficientemente approssimata riproduzione del reale. Una volta saldamente in possesso di questa coscienza, si procederà sulla via della “costruzione” di una “realtà” stabilizzata che serva da campo delle nostre pratiche. Se si è seguito quanto detto fin qui, dovrebbe essere chiaro che la cooperazione tra individui e gruppi – cooperazione che trova diversi gradi di stabilità e “affettività”, quindi pure l’amicizia – è subordinata al prioritario elemento del conflitto, di cui le strategie sono strumento operativo. E’ il conflitto l’effetto principale causato dall’insieme delle spinte squilibranti e multidirezionate. E’ nel conflitto, considerato nel suo aspetto più generale e non ancora “storicamente determinato”, che dobbiamo sentirci portatori (anche nel senso di portati, di trascinati). Quando reagiamo tramite il pensiero e sviluppiamo le nostre azioni teoriche – e insisto nel ricordare che non mi limito alla scienza, ambito del resto ampliato o ristretto a seconda delle definizioni date d’essa – siamo comunque agenti; non possiamo quindi esimerci dall’assumere precise responsabilità in merito alle azioni compiute. Nel conflitto assumiamo ruolo e funzione di agenti conservatori o trasformatori: con vari gradi in ognuna delle due attività del conservare e del trasformare. Tale assunzione avviene dunque sempre nell’ambito di conflitti reciproci, in cui si stabiliscono pure determinate alleanze. Se il conflitto è modesto, perché implica soltanto alcune modifiche alle teorie, apparati, istituzioni, ecc. stabilizzatisi in epoche precedenti, possiamo concederci il lusso del dibattito d’idee, della sedicente “democratica” espressione del proprio pensiero, della propria volontà, delle proprie decisioni, ecc. Quando la tensione squilibrante diventa insostenibile, quando occorre una nuova precipitazione trasformativa, gli alleati diventano amici, gli avversari nemici acerrimi, da distruggere. E se qualche amico traballante passa di campo, diventa traditore, spazzatura di cui ripulire l’ambiente”.
Non mi aspetto che i nostri detrattori puri, duri e immaturi abbiano capito qualcosa di tutto il discorso, del resto a loro basta la fede incrollabile nel comunismo o in altre narrazioni spacciate per teorie (comunitarismo, decrescita, ecc. ecc.) per sputare sentenze. Chi, invece, ci ha seguito (nonostante le troppe abbreviazioni del mio ragionamento) avrà dei mezzi aggiuntivi per riconoscere questi cialtroni che abitano i secoli scorsi ma vogliono dettare legge nel nostro presente sfasciando macchine e insultando chi non si allinea alle loro turbe psichiche.