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Quello che non ho

Da Julesdufresne

Non è che io non sia capace di parlare delle cose.

Le parole, lo sai, le ho. Preferisco scriverle, piuttosto che dirle a voce alta, ma posso farcela benissimo, con un po’ d’impegno. Posso cominciare e posso andare avanti, frase dopo frase, lenta e forse un filo monocorde, ma sicura, senza problemi, senza esitazioni.

Senza guardarti, anche, però.

Per parlare delle cose io devo guardare diritto davanti a me, devo perdermi nel buio rassicurante che sarebbe la platea se le frasi che mi ascolto pronunciare le avesse scritte qualcun altro, se fossi un’attrice alle prese con un monologo. Devo guardare avanti in quel modo peculiare che serve a far credere ad ogni singola persona in sala (tranne forse quelle sedute proprio ai bordi della fila, se una non è strabica) che tu ti stia rivolgendo espressamente a lei, che il tuo cuore sia aperto solo per lei, che la prova della verità delle tue parole stia tutta lì, nei tuoi occhi fissi e dolorosamente sinceri.

Per aprirti il mio cuore, scesa dal palco, devo necessariamente distogliere lo sguardo. Se ti guardassi, lo so, mi fermerei. Se mi voltassi verso di te, se vedessi il tuo viso, se i nostri sguardi si incontrassero, allora non resisterei alla tentazione di stare in silenzio e guardarti agitare e disperare e fare qualsiasi cosa per farmi sorridere di nuovo, per strapparmi anche solo una parola, un minimo di calore.

Io sono capace di parlare delle cose, adesso, ma ho dovuto imparare. Da sola, e troppo da grande perché mi riuscisse di farlo con naturalezza. Discutere con profitto è un’attività che mi è faticosa ed estranea. Lascia che ti spieghi.

Mia madre, quando io ero piccola e lei era giovane, non gridava mai con me, non ha mai alzato una mano. Mia madre, se era arrabbiata, sedeva da qualche parte e fissava diritto davanti a sé, tranquilla, in silenzio, e io potevo fare qualsiasi cosa, potevo piangere, potevo chiamarla, potevo provare a  scherzare, potevo impiegare nervosamente tutte le mie piccole ridicole armi di bambina, senza che la minima scintilla di interesse si accendesse nei suoi bellissimi occhi grigi. Non batteva ciglio.

Poi le passava, ed era di nuovo la mamma migliore del mondo, e io mi facevo stringere con il cuore traboccante d’amore e pensavo che se fosse capitato un’altra volta, se ancora fossi dovuta rimanere sola con lei che taceva e mi guardava senza alcun interesse, pensavo che allora avrei preferito direttamente essere morta. E speravo  che non capitasse più, davvero, e nello stesso tempo sapevo che sarebbe capitato di sicuro, perché per quanto bene io potessi comportarmi, mai sarei riuscita a fare tutto davvero alla perfezione.

E continuava a capitare, infatti, ma meno di frequente. E faceva meno male, anche, perché intanto io crescevo, e l’amore che provi per la tua mamma a quattro anni, per quanto tu continui a volerle bene, non è lo stesso amore che provi quando ne hai quindici e hai capito che anche dietro a quegli occhi grigi e belli c’è una donna come tutte le altre, che fa del suo meglio ma che non sempre riesce in quello che dovrebbe e che a volte fa cose che sono semplicemente stupide e un po’ crudeli. Poi, in effetti, ha smesso di capitare quasi del tutto, a un certo punto, non so bene perché, forse semplicemente perché sono cresciuta io. Non è una cosa di cui parliamo, naturalmente.

Tu però capisci che, nel frattempo, venga la tentazione di provare. La curiosità di sapere se possa funzionare anche con te, se il silenzio sia un’arma altrettanto potente anche nelle tue mani inesperte, se l’effetto sia il medesimo anche se i tuoi occhi non sono grigi e smaliziati e anche se nessuno al mondo prova per te quel sentimento totalizzante che una bambina piccola sente nei confronti della sua mamma.

Funziona.

Funziona così bene che non c’è davvero motivo per imparare a gestire i conflitti in un’altra maniera, se anche ci fosse qualcuno capace di insegnarti come si fa. Funziona così bene che fa quasi spavento, per quello che ti scopri in grado di suscitare in chi ti vuole almeno un po’ bene. Funziona così bene che arrivi a pensare che, se continui così, nessuno sarà mai più in grado di far soffrire te. È una meraviglia.

Poi, però, per fortuna, arriva il momento in cui, se vuoi crescere veramente, sei costretta ad ammettere con te stessa la bruttezza inqualificabile del lasciare che chi ti ama rinfocoli i suoi sentimenti con le sofferenze che tu, scientemente, gli stai infliggendo. Il momento in cui prometti a te stessa che mai più resterai in silenzio ad ascoltare il crescendo del nervosismo, del panico di una persona a cui vuoi bene veramente. Il momento in cui decidi che d’ora in poi discuterete, anche se ti riesce difficile e ti fa male e tu non sei per niente abituata a combattere ad armi pari e di sicuro vi farete male entrambi e potrebbe anche andare a finire tutto in niente.

Quindi scusami, se per parlare delle cose sono costretta a guardare dall’altra parte e comportarmi come la mediocre attrice teatrale che sono: non conosco altre maniere per aprire il mio cuore di persona, nessuno me le ha insegnate.

Faccio del mio meglio.



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