Una decina di giorni fa ho perduto mio padre.
Scrivo per sentirmi meglio, ma dato che qualcuno leggerà mi sento quasi in dovere di scrivere qualcosa che potreste non sapere.
Credo che non sappiate, se non lo avete provato, che passo i giorni, le ore, a ripetermi la sua risata in testa. Era una risata grassa e gli ultimi tempi finiva con un colpo di tosse.
Mi ripeto continuamente anche la sua voce perché ho paura di dimenticarla: il suo tono, il suo accento, le sue pause.
Aveva uno spiccato accento bolognese, più forte di qualsiasi altro componente della nostra famiglia e una voce Greve da uomo.
Mi aveva insegnato che Bologna è la città più bella del mondo; “ne ho viste tante” diceva “ma Bologna oh, ragaz… é Bologna!”.
Parlava poco e aveva due occhi verdi da far schiantare: bastava guardarlo negli occhi per leggergli dentro.
Da quando ho ricordi, affermava che non avrebbe superato i 40 anni: dai 40 ai 50 l’ho preso in giro ad ogni compleanno, dai 50 ai 57 consideravo la battaglia tra me e il suo destino decisamente vinta.
Ora, non mi vergogno ad ammettere che ogni volta che incontro una persona che ha superato i 57 anni mi chiedo per quale assurdo motivo questa sia viva e mio padre no.
Ascoltava i Depeche Mode, Oasis, Lou Reed, Guns N’Roses e tra questi cd che teneva nel suo furgone, un Opel Vivaro Bianco*, ne spiccava uno: Anastacia.
“È una gran donna” mi diceva “ha avuto il cancro due volte e l’ha sconfitto”; io tra me e me pensavo che sì, sarà una gran donna, ma le sue canzoni…
Poi, quando non lo sentiva nessuno, cantava “Ho visto un posto che mi piace, si chiama mondo”.
*A proposito di Opel, ma quanti cacchio stracacchio di Vivaro bianchi avete venduto? Ogni volta che capito in strada e un’invasione. E Che cazzo!
Fischiettava spesso, ma non era un fischio forte, l’aria fuoriusciva dal lato destro della bocca. Non lo faceva quando era allegro, piuttosto quando era nervoso o a disagio, per ostentare tranquillità.
Era un trasfertista, ricordo che da piccola all’aeroporto guardavo le porte automatiche degli arrivi cercando di vederlo arrivare e gli correvo incontro.
Le guardie nemmeno mi fermavano nonostante non si potreste oltrepassare la barriera.
Gli saltavo al collo, lui mi prendeva in braccio, mentre con l’altro tirava la valigia e uscivamo insieme.
Quando sono nata era al lavoro in Russia. Ogni settimana mi inviava una cartolina con sempre la stessa identica scritta “Ciao da papà“. Ne ho un plico alto 30 cm, saranno 50.
Era burbero e non dava grandi dimostrazioni d’affetto, ma per 33 anni ha tenuto nascoste nella sua scrivania tutte le letterine che io e mio fratello avevamo scritto a Babbo Natale. Quando le scoprii , qualche anno, fa mi venne un tuffo al cuore.
Quando eravamo piccoli, cercava di sopperire alla sua assenza facendoci regali costosi ed esagerati, tanto avevo quasi paura ad esprimere qualsiasi interesse verso cose materiali perché nel giro di poco me le sarei ritrovata in casa. Ricordo che un giorno lo sentii urlare furiosamente con mia mamma perché voleva a tutti i costi prendermi una capretta, dopo la mia smania per Fiocco di Neve (ndr. La capretta di Heidi).
Ci amava tanto e lo dimostrava in modo originale.
Andava in giro a dire quando amava me, mio fratello e mia mamma. Lo diceva a tutti, anche quando non usciva l’argomento. Spesso incontravo (ed incontro tutt’ora) sconosciuti che attraverso i suoi racconti mi conoscono più dei miei amici.
Quando era giù mi guardava e in dialetto mi sussurrava “Dam un basen” (dammi un bacino), dopo quel bacio richiesto il suo viso creava un’espressione pacifica.
Gli piaceva raccontare storie quando era in vena e a me piaceva ascoltarle, nonostante le avessi già sentite mille volte.
Era un gran bevitore, reggeva benissimo, ma anche un solo sorso di lambrusco lo metteva k.o. per via dell’arenina.
Adorava uova e pancetta, li ordinava sempre e sapeva fare una frittata spaziale: il segreto era mettere un po’ di dado nell’olio di frittura.
Amava andare al mare a mangiare il pesce, mi portava spesso; nei giorni peggiori mi diceva: “Ragazzina come andiamo?”, se in risposta facevo il mio solito ghigno che stava a significare: male, mi rispondeva: “Salta sù” e mi portava a Cervia, alla Romagna Antica.
Era la persona che mi faceva più incazzare al mondo, poi lasciava passare pochi giorni e mi chiedeva: “sei arrabbiata?” e io, già in lacrime, “no”. Non riuscivo a stare arrabbiata per più di tre giorni, poi mi mancava tantissimo.
L’ultima volta che abbiamo litigato mi sono sentita come una ragazzina alle prese con il morosino: ho bloccato il suo numero per evitare di richiamarlo subito.
Inutile dirvi che:
- Dopo appena 20 giorni sono andata a casa sua
- Ora, col senno di poi, darei di tutto per riavere indietro anche quegli stupidi 20 giorni.
Odiava quelli che portano il colletto delle polo tirato sù; tendenzialmente odiava tutti i fighetti, ma quando capitava di incontrare questo particolare esemplare di fighetto iniziava a borbottare non appena lo intravedeva da lontano.
Comprava sempre qualcosa dai vù cumprà che suonavano a casa, tanto che si sparse la voce e ci ritrovammo una scorta di calzetti scadenti da non acquistarne più per almeno 5 anni. Se questi avevano la fortuna di suonare verso ora di pranzo, state certi che insisteva finché non rimanevano a pranzo con noi.
Mi ha insegnato a diffidare dei bigotti, dei benpensanti, mi ha insegnato a rispettare tutti, al di là delle religioni, del colore della pelle, dell’età. Aveva la mente aperta e per questo lo invidiavo e lo rispettavo moltissimo.
Non fingeva buonismo: era un puro.
Aveva pochi valori e molto forti, sui quali era inamovibile.
Non parlava mai di suo padre, che aveva perso da piccolo e non appena qualcuno cercava di scavargli un po’ dentro scattava rabbioso.
Aveva una vera e propria allergia per medici ed ospedali, durante tutta la sua vita aveva messo talmente a dura prova il suo corpo che mi ero illusa fosse invincibile.
Non era di certo uno sportivo, ma gli piaceva andare in Mountain Bike. Leggende narrano che una domenica lui e i suoi colleghi si siano buttati già da MonteBudello, senza alcuna protezione. Papà quella sera tornò a casa completamente distrutto, colante di sangue un po’ ovunque. Un’altro finì all’ospedale con un trauma cranico.
Aveva intrattenuto Patty Pravo su un volo per New York, lo raccontava sempre; su un altro volo era finito a sedere a fianco di Ivana Spagna e raccontava di aver fatto finta di dormire per tutta la tratta.
Aveva posseduto ogni tipo di auto americana o Suv e credetemi, era riuscito a fare andare una Renault due cavalli su due ruote.
Era appassionato di camper: ogni anno a settembre andavamo alla Fiera del camper travestendoci apposta da Nerd: occhiali tondi e zainetto.
Poteva Guidare per ore senza riposare, era instancabile.
Mi diceva sempre che ogni persona, almeno una volta nella vita, dovrebbe visitare il campo di concentramento di Birkenau (vi chiedetete: ed Auschwitz no? “Auschwitz è per i turisti” diceva).
Di notte dormiva poco e guardava moltissimi film. Il suo preferito da sempre era Apocalipse Now.
Un giorno mia mamma lo sorprese a guardare un film cinese in lingua originale, gli chiese di cambiare canale e lui gli rispose che non era colpa sua se lei era ignorante.
Era un tipo così, sarcastico e pungente.
Odiava vedermi con tacchi, rossetto, gonne…. qualsiasi cosa femminile. Non era gelosia, mi diceva che “quelle cosette sono per le fighe di legno”.
Tutt’ora non mi do mai lo smalto e praticamente non possiedo scarpe col tacco per evitare di essere giudicata.
Invece adorava vedere mia mamma tirata, la sfotteva poi la ammirava con orgoglio.
L’ha amata moltissimo, l’amava ancora tanto. Me lo aveva confessato un paio di anni fa dopo un bicchiere di troppo ed io feci finta di non sentire.
Mi chiedeva quando l’avrei fatto diventare nonno praticamente da quando facevo le superiori, il giorno in cui gli dissi che ero incinta era così sotto shock che mi rispose solo: “Nooo, dici davvero? oh dici davvero o è uno scherzo??” E guardandomi serio: “Quindi quello stronzo, s’è guzzato mia figlia??”.
Portava sempre i pantaloni militari a cavallo basso e tanti bracciali al polso. Ora quei bracciali sono al mio di polso, tanto per sentirlo un po’ più vicino a me.
Durante qualsiasi stagione indossava solo ed esclusivamente scarponi alti da montagna. Il perché Non l’ho mai capito.
Si era tatuato Toro Seduto sulla spalla. Ci credete? Toro Seduto!
In tutta la sua vita sarà andato dal barbiere due volte, si faceva crescere i capelli sono alle spalle e li gestiva con un cerchietto per poi improvvisamente rasarsi a zero, era ciclico.
Portava diversi orecchini piccolissimi in oro all’orecchio, ogni tanto mi chiedeva di cambiarglieli o allacciati.
I buchi se li era fatto da solo: un ago, un arancio dietro l’orecchio e zac! Insisteva sempre per farmene uno, ma non ho mai avuto il coraggio.
Credevo di perdere il sonno a seguito di questo grande dolore e invece, figlio permettendo, dormirci sempre. Nel sonno posso vivere la vita che vorrei, posso ascoltarlo, abbracciarlo, scherzare con lui e credere che tutto questo non stai accadendo. Posso fingere che il sogno sia la realtà e la realtà un brutto sogno.
Ogni tanto mi sembra quasi di ridurlo, tra le ombre di casa, per strada, tra la gente … forse sto solo diventando matta. Ma è certo che la normalità da oggi avrai tutto un’altro sapore.
Fino al 2 marzo ho sempre pensato che vedere un morto dovesse fare un gran senso e si, diciamocelo, un gran schifo.
Invece, forse non sapete che io quel corpo freddo all’obitorio me lo sarei stretto a me sino a riaccenderlo, lo fissavo e gli stribgevo la mano gelida come se da un attimo all’alteo si potesse rialzare. Al momento della chiusura della bara ho sentito uno strappo al cuore, uno strappo fisico, non parlo in senso figurato.
Credo, temo, che quello strappo non si rimarginerà mai più.
Mio padre, Gabriele, é morto a 57 anni di cancro.
Aveva deciso di non farci sapere nulla della sua malattia e per questo, se è possibile, lo amo ancora di più.
Colonna sonora: Guns N’ Roses – Patience