opera di Ozmo, 2008, Campofelice di Roccella (Pa)
L’idea del mio lavoro attuale, intendo della pubblicità, mi venne qualche settimana dopo la retata che portò al gabbio Spud. Dopo il suo arresto chiamai Renato Festa e gli raccontai la mia situazione, lui mi riattaccò il telefono in faccia, ma un’ora dopo era a casa mia a farmi un cazziatone da prete. Dopo la paternale Renato dimostrò grande lucidità; se si erano bevuti Spud presto avrebbero indagato anche me, era inutile scappare, la cosa più intelligente da fare era cominciare a lavorare sulla difesa; dovevo dimostrare di averci guadagnato poco o nulla con gli smerci in cui ero coinvolto, dovevo fingermi un morto di fame per dimostrare un ruolo secondario all’interno del gruppo. Mi liberai della roba di valore che avevo in casa, portai l’Alfa a rifarsi il look in alcuni dei cento sfasciacarrozze della Palmiro Togliatti, per farla sembrare un rottame, un delitto che ancora non mi perdono, ma soprattutto mi cercai un lavoro. Renato mi procurò un periodo di prova in una ditta di trasporti per la grande distribuzione; la mattina dopo mi presentai, mi diedero la mia uniforme, cioè un giubbetto catarifrangente, e mi dissero di salire sul furgone di Zapata. Il vero nome di Zapata non lo ricordo, o forse non l’ho mai saputo. Non fu un caso che misero proprio me, la matricola, con Zapata. Nessuno voleva lavorare con lui; penso per via delle sigarette, ne aveva sempre una tra le dita, impestava l’abitacolo del furgone, e non le aspirava mai, del resto la sua bocca era occupata in una produzione pressoché continua di scazzi e lamentele, nei riguardi dell’azienda, del sindacato, del governo, dell’umanità. Anzi c’era anche un altro motivo pur cui nessuno voleva lavorare con lui, ed era che Zapata, a cinquantatre anni, aveva avuto il benservito dalla ditta, quello era il suo ultimo mese di lavoro, e tutti volevano stare alla larga dalla sua incazzatura cosmica. Nella sua ultima settimana di lavoro, io e Zapata lavorammo alla fornitura di un megastore di elettronica che avrebbe aperto da lì a poco, l’ultimo giorno trasportammo televisori, all’epoca erano ancora a tubo catodico, ingombranti e maledettamente pesanti; quando ci chiesero di spostarne alcuni dal magazzino al negozio, Zapata stranamente non protestò, non tirò in ballo le condizioni contrattuali e lo sfruttamento della classe operaia, caricò i televisori a mano, da solo, con un inquietante mezzo sorriso. Zapata volle passare i suoi ultimi minuti del suo ultimo giorno da trasportatore in quel negozio, aspettando che il tecnico accendesse la piramide di schermi, e quando lo fece esplose un tramonto psichedelico; Zapata indossava sempre un pantalone da lavoro, con enormi tasche, che generalmente riempiva di pacchetti di sigarette, nastro adesivo e taglierini, ma quella volta si era armato di magneti, grossi magneti cilindrici, come quelli degli altoparlanti delle casse, e con quelli aveva smagnetizzato i cinescopi dei televisori mentre li trasportava. Rimase lì a godersi lo spettacolo, con l’immancabile sigaretta accesa tra le dita.
Il megastore chiese i danni all’azienda di trasporto, e Zapata si prese la sua buonuscita simbolica, il Tfr della dignità. Per sdebitarsi mi regalò il suo zippo d’acciaio, cioè quello che ora è il mio zippo d’acciaio, perché per via di quell’incidente io fui licenziato prima ancora di finire il periodo di prova. Fortunatamente.