Quello non ero io – venticinquesima puntata

Da Olineg

"Flow" by David Ellis

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Vado verso la mia camera; considerando che partirò tra qualche ora sarebbe meglio dormire un po’. Ma mi fermo; una cosa attrae il mio occhio nonostante la palpebra comatosa, è lo zaino dell’albanese, lì a terra, vicino la porta del bagno, finalmente se n’è liberato, magari lo ha messo fuori per non farlo bagnare, magari ci sono cose all’interno che è meglio tenere asciutte, ad esempio… i documenti. Mi inginocchio, infilo una mano nello zaino. Ferro freddo, la sensazione al tatto è quella del ferro freddo. Potrebbe essere qualsiasi cosa, eppure a me ne viene in mente una sola; tiro fuori la mano. Io non mi intendo di pistole, ma questo mi sembra un bel ferro, è come quella degli sbirri ma più piccola. La impugno, e mentirei se dicessi che non dà una bella sensazione, ma il sangue che mi pompa in testa, e dietro gli occhi, quello no… non dipende da quello.
Apro la porta del bagno, lui è lì, sotto lo scroscio dell’acqua, a pochi centimetri, non mi è difficile colpirlo, la prima volta, e poi ancora, lui rimane in piedi, non deve essere la prima volta che le prende.
-Che cazzo è questa eh?
-Quelli fatti miei.
-Fatti tuoi un cazzo… se ci fermavano inculavano pure me… che ci dovevi fare con questa?
-Ammazzare uno.
-Ah… chissà che mi pensavo io… lo potevi dire subito, me lo dicevi quando ti ho dato il passaggio, mi dicevi guarda ho una pistola, ma non ti preoccupare, devo solo ammazzare uno…
-Scusa.
Chiude il rubinetto della doccia, perde sangue dal naso, ma non si pulisce.
-Scusa un cazzo…
-Lui lavorava a centro di accoglienza di Otranto, io stato lì quando arrivato in Italia, e lui…
-Sì sì, fermati, non me ne frega un cazzo… dimmi piuttosto che non lo hai ammazzato, no perché non ci voglio credere che sono tanto coglione da aver portato a spasso un assassino con la pistola ancora fumante, non ci voglio credere che sono tanto coglione di aver rischiato l’ergastolo per un ragazzino di merda che manco conosco…
-Centro di accoglienza chiuso due anni fa. Io non sapeva.
-Perché se lo trovavi lo ammazzavi veramente?
-Sì.
Gli punto la pistola in faccia… cazzo che bella sensazione… lui non reagisce.
-Questa scordatela.
Dico, abbasso la mano ed esco dal bagno.
La maniglia della porta che dà sul giardino mi scivola dalla mano, mi accorgo di essere fradicio. Lo iurt è ridotto male, le piante sono tutte secche, resiste a stento un albero di fico, addossato al muro, e con i rami che tentano di scavalcarlo, sembra che voglia evadere. E poi tanta merda, spazzatura, sacchetti di spazzatura buttati dalla strada. Il pozzo è sulla mia sinistra, ci butto la pistola. Sento un rumore asciutto, del metallo sulla pietra; deve essersi esaurita la falda, infilo la testa nel pozzo per controllare. C’è solo buio.

C’è buio e buio. C’è il buio della sala cinematografica e il buio degli occhi chiusi in carcere. C’è il buio di quando svieni e il buio di un pozzo secco. E c’è anche il buio quando da bambino ti chiudono in una stanza buia, a riflettere su quello che hai fatto; mia nonna non lo faceva mai, era troppo affezionata ad altre tecniche punitive, ma Don Daniele, il parroco di Tiretola, era di parere opposto, mi chiudeva spesso nella stanza delle scope dell’oratorio. Oddio spesso magari no, ogni volta che facevo a cazzotti durante una partitella di calcio, e a ben pensarci… beh sì… succedeva abbastanza spesso. Ma non picchiavo i miei compagni gratuitamente, li picchiavo per difendere il mio diritto di espressione: giocavo in difesa, e se c’era una cosa che di quello sport mi piaceva era spazzare via la palla, non la passavo mai, calciavo con tutta la forza per mandare quella cazzo di palla alle stelle, ma poi quella stronza ricadeva sempre, e lì a centrocampo la poteva prendere chiunque, era come ricreare la sorte in provetta, il destino artificiale, ma evidentemente questa tattica non rientrava nelle strategie di squadra, e mi ritrovavo a difenderla con le nocche sui nasi altrui. Che poi di vincere, di arrivare primo, non me ne è mai importato nulla, a me stanno simpatici quelli che arrivano terzi, quelli che non hanno l’arroganza del primo o l’invidia del secondo, quelli che arrivano terzi e sono sereni, perché sanno di non essere i migliori ma sanno anche di essere i più forti tra i più deboli; l’oro e l’argento sono metalli per fighette, buoni solo per fare monili, invece col bronzo si facevano i cannoni e le statue dei re.

Continua…

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