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Quello spregiudicato di Croce

Creato il 20 novembre 2012 da Faustodesiderio

Ricordare Benedetto Croce a sessant’anni dalla morte avvenuta a Napoli nella mattinata piovosa del 20 novembre 1952. Lo farà oggi il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Palazzo Filomarino con un discorso intitolato: “Croce 1943-1944. Da Napoli per la salvezza dell’Italia”. È, visti anche i tempi che viviamo, una scelta saggia. Il filosofo, infatti, in quegli anni si fece politico, e politico accorto e lungimirante, tanto da essere stato nei fatti il primo interprete della continuità dello Stato nazionale italiano in un tempo che, per le sorti della guerra sciagurata accanto alla Germania di Hitler, il frutto più importante del Risorgimento era quasi perduto. Allora, ricordare Benedetto Croce non significa soltanto riconsiderare la sua filosofia e le sue idee ancora attuali, ma la sua stessa vita come opera filosofica. Era proprio Croce che distingueva tra vita e opera invitando a ricercare la vera umanità in quest’ultima, ma nel suo caso l’esistenza assume valore di filosofia perché la libertà in cui vide il motore della Storia fu da lui interpretata e vissuta in prima persona, tanto nel suo trionfo quanto nella sua oppressione, come un moderno Socrate. Ecco perché ricordare Croce non significa riconsiderare una teoria ma comprendere il senso profondo della sua esistenza e il valore antiaccademico del suo pensiero legato alla vita e alla storia.

Gianfranco Contini nel suo storico saggio La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana sostiene l’esigenza, da lui avvertita, di «essere postcrociani senza essere anticrociani». L’anticrocianesimo, come una volta ebbe a dire con sincerità Paolo Rossi, è stato uno sport accademico, dunque cosa minore, eppur non poco praticato: «La generazione alla quale appartengo si è dedicata a questa attività critica come ad una specie di sport praticato con tenacia, continuità e quel tanto di sadismo che è accettabile in ogni attività sportiva» (dal libro collettaneo Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra). Proprio questo, dopotutto, spiega perché non fu mai scritto quell’Anti-Croce che Antonio Gramsci auspicò e che se fosse stato scritto (pensato) avrebbe permesso oggi ai tanti orfani del marxismo di maturare una più solida e convinta sensibilità liberale. L’anticrocianesimo, insomma, è stato una moda, non una cosa seria: si è cercato, in altre parole, non di pensare Croce e la sua filosofia, ma di metterla tra parentesi o in soffitta, come cosa ormai vecchia e non più servibile. L’esigenza avvertita da Contini di “essere postcrociano” fu, invece, di tutt’altra pasta. Tuttavia, qui non di post e di anti si vuole discorrere bensì – diciamo così – proprio della terza o prima categoria che quelle due richiamano o presuppongono: i crociani. Già, i crociani, chi sono costoro?
Il modo più semplice e vero di rispondere alla domanda sarebbe quello di fare nomi e cognomi. Perché, in fondo, non è mai esistita una cosa definibile come “scuola crociana”, mentre ci sono stati pensatori, studiosi, filosofi, critici, storici, economisti, politici, imprenditori, banchieri crociani. Non esiste una scuola crociana perché Croce stesso non fondò una scuola per avere allievi, discepoli, seguaci che divulgassero il suo pensiero o occupassero con la loro stessa presenza cattedre universitarie. La divisione dell’hegelismo in partiti, scuole e sette che – come scrisse una volta – producono “incretinimento” gli dovette far orrore. Il filosofo non faceva catechesi e non voleva tra i piedi “apostoli e proseliti”, ma solo uomini liberi e autonomi. Una volta la figlia Alda ricordò che Croce amava ripetere i primi versi della poesia I Cirròpodi di Francesco Gaeta che dicono: «da apostoli e proseliti/ Signor di liberarmi/ ti fo prece…». La stessa cosa non si può ripetere in toto per Gentile che, invece, proprio da professore universitario ebbe una sua scuola e dei suoi allievi che rappresentarono la “scuola gentiliana”.

Insomma, Croce non fu un accademico e il suo scopo non era quello di mettere in cattedra nessuno – anche se ebbe rapporti con il mondo dell’accademia e c’è stato un “crocianesimo accademico” secondo la definizione di Vittorio Mathieu – o, peggio che andar di notte, certamente non volle mettere al mondo professori. Anche se sul finire della sua vita fondò l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, proprio questa sua creatura dà la cifra della sua opera di pensiero e vita morale in quanto è concepita come libera scuola di studi, ingegno e attività umanistica. Il pensiero di Croce, in quanto affonda le sue radici nell’Umanesimo, è un pensiero spregiudicato che non tende a chiudersi in una scuola ma a uscire dalle scuole. La caratteristica dei crociani, si può dire, non è quella di aderire a una dottrina, ma di rivolgersi a un’opera di pensiero per recare nutrimento alle loro attività di conoscenza e azione. In altre parole, è l’adesione all’etica della operosa vita libera.
Un esempio con, appunto, nomi e cognomi schiarirà meglio la cosa. Ne cito solo alcuni, perché la lista sarebbe lunga. Raffaele Mattioli, Salvatore Valitutti, Giancarlo Lunati: il primo fu un banchiere, il secondo un politico e pedagogista, il terzo un amministratore di varie aziende editoriali e non. «Incontrai Benedetto Croce nell’autunno del 1951 a palazzo Filomarino a Napoli – scrive proprio Lunati nel suo libro Etica e progettualità – dove aveva sede l’Istituto italiano di studi storici da lui fondato. Rimasi a quella scuola circa un anno e imparai a vedere un’altra dimensione della filosofia, più ricca di umori e di contrasti, intrecciata con storia e arte, e anche più imprevedibile». La filosofia di Croce non è rivolta al mondo universitario ma alla varietà delle attività del mondo umano. Insomma, la filosofia di Croce ha una sua dimensione civile. E questa dimensione civile è visibilissima anche nei crociani sanniti ai quali mi piace far riferimento: il critico letterario di Colle Sannita, Francesco Flora; il filosofo di Guardia Sanframondi, Alfredo Parente; l’editore di Airola, Riccardo Ricciardi. E siccome anche il “maestro di Croce”, Francesco de Sanctis, era un sannita irpino, vale la pena ricordare che la radice civile della concezione del pensiero e della vita come vita morale di Croce trova la sua fonte proprio nell’autore della Storia della letteratura italiana che fu la massima espressione delle “scuole libere” di Napoli.

Giuseppe Prezzolini, altro crociano autonomo, dedicò la quarta delle sue Modeste proposte all’abolizione non solo delle cattedre di filosofia, cosa già propugnata da Croce, ma di tutte le facoltà letterarie. Certamente non perché pensasse che le attività umane fossero inutili ma, all’inverso, proprio perché riteneva che nulla di buono potesse venire loro dalle cattedre: «Questa mi è venuta in mente proprio perché riguardava me personalmente come insegnante di letteratura italiana in un’università d’America – scrisse il grande “italiano inutile” – ed è l’abolizione dell’insegnamento di Stato delle materie umanistiche. Avete mai pensato alla vanità dell’insegnamento delle letterature? Dello scrivere storie? Della critica letteraria e artistica? E anche delle arti in generale. Parlo, naturalmente, dal punto di vista dello Stato che spende per queste attività un numero enorme di milioni. Nessuna scuola pubblica ha creato uno scrittore, un pittore, un architetto, un musicista… Meno lo Stato ha da fare con le arti, e tanto ci guadagnano queste. Le letterature e le arti non si insegnano e non si imparano. Si rivelano con il bisogno di scrivere o di disegnare. Anche la filosofia non si insegna. Anche la storia non si insegna… Il professore cattedratico dovrebbe quasi scomparire… Mi pare che sarebbe meglio se il governo si astenesse dalla filosofia. La filosofia non avrebbe che da guadagnarci. Infatti i movimenti filosofici di qualche importanza che nacquero in Italia vennero da scrittori che non insegnavano nelle università: da preti come Rosmini e Gioberti, o da insegnanti scorbellati come Antonio Labriola, o da persone che si rifiutarono di prendere la laurea come Benedetto Croce, o da insegnanti che furono boicottati per anni dai loro colleghi, e specialmente dai colleghi specialisti in filosofia, come il Gentile. I filosofi non hanno molto in comune con gli insegnanti di filosofia».
Diciamo pure che non hanno nulla in comune. Ha ragione Anacleto Verrecchia nell’osservare in una sua nota intitolata, per l’appunto, “I filosofi di ruolo”, e posta a mo’ di introduzione al pamphlet di Schopenhauer Sulla filosofia da università, che sulla bocca di Croce la parola professore si impastava «di un sale particolare, fatto di ironia e di disprezzo». Quando fa procedere un nome dal titolo di professore, state pur certi che fa della canzonatura. «Chi ha ingegno profondo – scriveva il filosofo in una sua lettera a Manlio Ciardo del 2 giugno 1949 – non è fatto per l’università. I suoi giudici non lo lasceranno passare… Vero è che in cambio potrà non curarsi dei professori universitari e, quando è necessario, dir loro quello che meritano». La polemica di Croce con la “filosofia da università” si può dire che duri tutta la sua vita e attraversi tutta la sua opera: se ne trovano notizie e spunti – vedremo – anche nel carteggio con un hegeliano sannita come Sebastiano Maturi di Amorosi.
L’antiaccademismo del pensiero di Croce è talmente vero e profondo che si ritrova anche negli stessi accademici crociani. Voglio qui ricordare Raffaello Franchini che fu, sì, professore universitario e forse il caposcuola del già citato “crocianesimo accademico”, ma non lo si potrà di certo giudicare “filosofo di ruolo”, anzi, bisognerebbe definirlo “filosofo fuori ruolo” perché non si sentì mai effettivamente un professore. Non a caso svolse prima, durante e dopo il suo “ruolo” all’università una intensa attività giornalistica che gli fu senz’altro utile nella stesura dei suoi libri così lontani dal cliché accademico. La filosofia per sua natura e costituzione e funzione non può andar d’accordo con il governo e il potere. Qualunque tipo di potere: la filosofia è venuta al mondo per limitare i poteri, persino il suo stesso potere, e creare spazio per l’esistenza della varietà delle attività umane.

La filosofia di Croce proprio all’interno di quello che fu il suo “sistema” – che in realtà Croce considerava solo una “serie di sistemazioni” – svolge la funzione di schiarimento al fine di rendere possibile la libertà delle altre attività umane. C’è un ricambio continuo con le cose fresche della vita che ci spingono a pensare. Non si può concepire filosofia meno scolastica e dogmatica. Franchini in uno dei suoi ultimi scritti, Il ritorno di Croce nella cultura italiana – libro che raccoglie tre interventi di Franchini, un altro di Lunati e il terzo di Fulvio Tessitore – osservava che la verità di Croce non è né indiscutibile né assoluta perché non dommatica e anzi si accompagna sempre alla percezione di quella che una volta lo stesso filosofo chiamò «l’ombra del mistero» e perfino alla gratitudine per i grandi filosofi «ispidi di errori ma ricchi di verità» che ci stimolarono a pensare meglio, a pensare senz’altro. È la qualità dell’umanesimo critico o tragico che si ritrova in coloro che ho definito, non senza ironia, i crociani sanniti e ai quali, immeritatamente, ispiro vita e pensiero.

tratto da Liberalquotidiano.it del 20 novembre 2012



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