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Questa volta, non avendo mete lavorative particolari, abbiamo scelto una collocazione centrale, a due passi da St Paul Cathedral, nel cuore della City. L’albergo è infatti pensato appositamente per gli uomini d’affari di passaggio a Londra, quasi interamente self-service, con moltissime camere infilate in lunghi corridoi, wireless gratuito disponibile in camera, angolo lettura e relax e un pub/brasserie collegato dove viene servita la colazione e ci si può fermare a bere una birra o a mangiare un boccone praticamente a qualunque ora.
Di venerdì pomeriggio uomini e donne in carriera stanno uscendo dagli uffici e si affollano davanti ad alcuni pub a bere la loro birra di inizio weekend. Prima cosa che noto (e che si confermerà nei giorni successivi, persino in Galles) è che il vino sta diventando molto popolare nel Regno Unito e soprattutto le donne sempre più spesso rinunciano alla classica birra (che gonfia e fa ingrassare!) per un bel bicchiere di vino, di solito bianco.
Per l’aperitivo torniamo a Broadway Market (che ci era piaciuto tanto durante l’ultima visita) e, dopo una passeggiata nel vicino London Fields Park ad osservare genitori e figli che giocano insieme, giovani che si allenano con le loro bici acrobatiche e distese di ragazzi e ragazze che chiacchierano tutti seduti nello spazio del parco dove c’è ancora il sole, è il momento della birra con S.
In questo nuovo assaggio della rinascita dell’East End londinese mi colpiscono non solo le biciclette essenziali che già avevo notato l’altra volta (senza parafanghi, niente freni, niente copricatena ecc.) e la quantità di negozi di prodotti biologici, ma anche l’abbigliamento di questi giovani, con i loro immancabili cappelli radical-chic, le espadrillas (ve le ricordate?) ai piedi, calze e leggings portati senza gonne e vestiti a coprire il sedere, colori sgargianti e accessori vistosi indossati con naturalezza.
Penso che questa zona rappresenti una Londra ricercatamente alternativa, contrapposta a quella tradizionalmente chic e a quella tradizionalmente popolare. E invece mi sbaglio, perché nei giorni a seguire mi accorgo che questa componente radical-chic, associata ad un’impronta culturale che potrei definire “no-global”, è diventata una caratteristica diffusamente londinese.
Così, dovunque siate e voltiate lo sguardo, vi si parerà davanti un negozio che vi propone cibo organic (biologico), local, healthy (che non danneggia la salute, anzi fa bene!) ed environmentally friendly (ecologico), ovvero un negozio che celebra cibo, mode e cultura di altri paesi, o ancora una piccola boutique di design o di abbigliamento di tendenza. Evidentemente, i disastri ecologici sempre più frequenti, i rischi sempre più alti per la salute, i segni profondi della crisi del capitalismo hanno prodotto una - almeno apparente - nuova sensibilità rispetto alla società e all’ambiente.
Con un’unica pecca, ossia che nemmeno la passione per il local e l’organic può sfuggire alla produzione su scala industriale e ai processi di massificazione. Dunque, bello vedere un uso estensivo del riciclabile e del fair trade , ma se vi guardate intorno il processo di replica all’infinito ha proporzioni incredibili.
Il bello di Londra è però la capacità di conservare una varietà e di continuare a rappresentare molte anime. Così, dopo l’aperitivo eccoci a Brick lane, Banglatown, nonché covo di comunisti nostalgici e di locali di ogni genere. Finiremo prima a un meeting di Pathfinder, una casa editrice che continua a sostenere e diffondere il mito della rivoluzione comunista, poi in un take away indiano a mangiare pakora e polpette, infine in un pub svedese con una bella terrazza in legno, dove purtroppo non si può evitare l’odore di aringa che viene fuori a getto continuo dalla cappa della cucina.
La notte non si dorme molto, causa trasformatore dell’aria condizionata rumoroso. Per fortuna, gli inglesi sono davvero attenti ai bisogni dei clienti e quindi la mattina seguente un efficientissimo tecnico verrà a concederci l’agognata tregua dal rumore di sottofondo.
Sabato abbiamo due obiettivi principali: una mostra di fotografia in una galleria che si chiama Ambika P3 e l’Easter Chocolate Festival sulla Southbank.
La metropolitana nei weekend è imprevedibile perché gli inglese presuppongono – giustamente – che sia più facile far sopportare i disagi di lavori di potenziamento della rete nel fine settimana piuttosto che durante i giorni lavorativi. Così, ci mettiamo un po’ ad arrivare alla nostra stazione della metropolitana e nel frattempo assistiamo a un buffo raduno di gente in bici (anche e soprattutto d’epoca) vestite in tweed secondo lo stile inglese dei signorotti di campagna della prima metà del Novecento.
La galleria Ambika P3 sta praticamente di fronte al museo delle cere (il celebre Madame Tussaud) e occupa un pezzo di garage sotterraneo che è stato volutamente mantenuto grezzo e minimalista. Luogo, mostra e gente molto londinesi radical-chic! Ci sono i lavori di quattro fotografi vincitori del Deutsche Borse Photographie Prize, la cui opera fotografica non punta certamente a una versione classica di estetica, bensì a utilizzarne alcuni canoni per stravolgerli, spiazzando lo spettatore in chiave filosofico-sociale. Ed ovviamente ad Ambika P3 non manca un bel banchetto di caffè e dolci biologici.
A questo punto prima una bella passeggiata in un fioritissimo Regent’s Park, poi verso St Christopher Place, con tappa Dim Sum (ravioli al vapore e alla griglia splendidi a vedersi, ma un po’ collosi, soprattutto viola impastati col cavolo) e poi l’immancabile Selfridges con le sue buste gialle (dove C. pensa di poter comprare una giacca Diesel con 48 sterline; peccato che ha visto il cartellino sbagliato!).
A questo punto ci aspetta il festival del cioccolato sulla sponda sud del Tamigi. Macarons, panforte al cioccolato, fave di cacao, cioccolata di ogni genere e forma allietano il calare del sole. La giornata finisce in bellezza con una bella (e sana) cena tailandese da Rosa’s a Soho e una passeggiata in questo quartiere che il sabato sera si trasforma in uno dei cuori pulsanti della città. Una breve puntatina in un locale trendy, un dolcino da quello che pensiamo essere un esclusivo ristorante francese, Café Rouge, e invece è una catena presente anche negli aeroporti londinesi, e infine a nanna.
Il mattino dopo c’è solo il tempo per una full English breakfast ed eccoci in metropolitana, ciascuno nella propria direzione. Durante il mio lungo viaggio in treno verso il Galles, penso che Londra è una città interessante per valutare lo stato di salute di questa nostra ormai vecchia Europa. E così accolgo positivamente questa quasi ossessione londinese per l’ecologico, il biologico e il locale, sebbene mi auguro non si tratti solo di una moda. Osservo - piacevolmente sorpresa - una giovane mamma che raccoglie un pezzo di galletta di riso che il suo bimbo ha buttato per terra in metropolitana e, dopo averci soffiato un po’ su, lo mangia. E al contempo mi fa un po’ paura l’altrettanto pronunciata ossessione della città per la sicurezza. Telecamere ovunque, postazioni per chiamare aiuto, cartelli in metropolitana che suggeriscono di segnalare al personale della sicurezza chiunque “abbia un’aria sospetta”.
Penso che siamo una società schizofrenica, in cui le istituzioni sono un po’ avvoltolate su se stesse, mentre dal basso sembra provenire una richiesta di riappropriazione della propria libertà e del senso della comunità. Chissà se c’è qualcosa di buono da sperare.
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