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questa storia qua

Creato il 14 settembre 2011 da Albertogallo

QUESTA STORIA QUA (Italia 2011)

locandina questa storia qua

Non starò qua a spiegare il mio rapporto con l’oggetto del documentario di cui si parla in queste righe. E non perché me ne vergogni, ma perché non mi va di giustificarmi di fronte ai tanti detrattori. E se dovessi spiegare perché lo apprezzo o quando ho iniziato ad avvicinarmi a lui suonerebbe proprio come una gigantesca giustificazione.

Questa storia qua, presentato a Venezia, è un documentario su Vasco Rossi. Partiamo da cosa mi ha colpito positivamente. Innanzitutto Vasco, che non c’è. O meglio, c’è ma il documentario non si snoda come una lunga intervista, il cantante non è inquadrato mentre parla e racconta compiaciuto: ci sono le sue foto, i suoi filmati d’epoca (piccoli film tra amici), ci sono i racconti degli altri e c’è, questo sì, la sua voce. Che però, invece di inondare le orecchie degli spettatori con le canzoni, fa da contrappunto alle immagini, come a elencare i titoli dei vari capitoli. Questo punto dell’assenza è secondo me molto importante, perché evita alcune scorciatoie che l’avrebbero reso il “solito” film su Vasco, il solito reportage televisivo con le immagini dei suoi live. Sono solo tre, in tutto, le immagini dei concerti, inserite in punti cinematograficamente essenziali: all’inizio, alla fine e al momento clou, quando si narra il ritorno di Massimo Riva nella band. Il tema dell’assenza fa quasi venire il sospetto che si tratti di un documentario postumo, come se il cantante fosse già trapassato.

Ma torniamo a Massimo Riva, il chitarrista/amico fraterno/alter ego del cantautore, divorato ancora giovane dalla droga. La sua figura apre un altro fronte interessante nel documentario, anzi due. Il primo è che Riva viene dipinto come un’efficace figura simbolica, cinematografica: il musicista viene mostrato in bilico costante a piroettare tra le corde di circo per un tempo piuttosto lungo, come a simboleggiare il modo incerto in cui è vissuto. Un bel momento di cinema, a mio parere (e i fan non possono che convenire sul fatto che Vivere fosse la canzone obbligatoria da mettere in sottofondo). Il secondo punto interessante è la droga, che poi è il primo pensiero (subito dopo vengono i suoi spettacolari maxiconcerti) che viene in mente quando si pensa a Vasco: Riva è finito male per colpa della droga, Rossi ne ha fatto uso e a causa di essa è anche stato arrestato. Ma una volta espressi questi due concetti il documentario volta pagina, evitando di percorrere la strada del moralismo.

Il film, diretto da Alessandro Paris e Sibylle Righetti, è in sintesi un efficace montaggio di momenti di esistenza vaschiana ma anche di vita a lui collaterale: amici, primi compagni di avventure musicali, la madre e, soprattutto, Zocca, paese natale di Vasco. Ecco, se si dovesse trovare un’etichetta per Questa storia qua lo si potrebbe definire un documentario su Zocca. Zocca cittadina anonima uguale a mille altre, una provincia che è casa e cimitero, fiero segno distintivo e allo stesso tempo un peso di cui disfarsi: chi è cresciuto in provincia sa di cosa sto parlando, e proverà forse queste stesse, contraddittorie sensazioni. È forte il legame che c’è tra tutta la gente del borgo, quei luoghi e le canzoni di Vasco. Legame non esplicitato, solo suggerito, lasciato intendere. Ulteriore indizio del fatto che questo documentario è vero cinema, vera arte.

Un film, dunque, ammirevole sotto diversi punti di vista: chi ama Vasco ne apprezzerà l’originalità, mentre chi non lo ama potrà per lo meno gioire della mancata onnipresenza dell’artista e della sua musica nei 75 minuti di pellicola – questo semplicemente perché il film parla di altro. I cinefili, invece, ne apprezzeranno il montaggio, le immagini simboliche (anche se alcune, devo dire, sono invecchiate male e fanno molto anni Ottanta) e il lavoro di ricerca sul materiale utilizzato. Ma soprattutto, di questo film, si apprezzerà “la terra”, questa Emilia ingombrante dalla quale, a quanto pare, non ci si riesce a staccare: chiedere, tanto per dire, a Ligabue, a Pupi Avati e a un certo Fellini.

Marcello Ferrara



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