Questioni di Fede. Il mio primo incontro con la pratica del Buddha.

Da Bibolotty

Un’amica mi ha rimproverata, appena qualche settimana fa, di essere avara nel divulgare la mia esperienza di fede e che forse, sarebbe ora di condividerla con più amici.
Le ho spiegato che il motivo per cui evito di parlarne è che il Buddhismo che io studio e pratico da circa ventitré anni non è così diffuso in Italia e che, essere scambiata per chi mercanteggia illuminazioni e adepti con un buon numero di benefici materiali, è stato fin qui l’ostacolo principale alla condivisione di questa sfera portante della mia vita.
Sentirmi dire ogni volta «ah...sì...conosco anch’io uno che fa Buddhismo» quasi si trattasse di uno sport qualunque, è deprimente, allora ho preferito tacere e tenere per me certe considerazioni.
Comunque, l’altro giorno qualcuno è arrivato al mio Blog digitando “difficile trovare la Fede” e allora mi sono sentita effettivamente egoista e ho deciso così di condividere questa esperienza, raccontando in parole povere, la dottrina dell’Alto Santuario della Fede.
Il Tempio al quale appartengo e dove è custodito l’Oggetto di Culto principale, il Dai Gohonzon, è in Giappone, ai piedi del Monte Fuji.
La Scuola filosofica alla quale appartengo fu fondata intorno al 1.200 dal Monaco seguace della Scuola Tendai, Nichiren Daishonin. Questa scuola che basa la sua dottrina sulla recitazione, lo studio, la pratica e la propagazione di tre Capitoli del Sutra del Loto, è la Nichiren Shoshu.
La particolarità del Buddhismo, e questo bisogna chiarirlo prima di tutto, è che ogni scuola, setta, o gruppo, basa la propria fede sulla confutazione e sulla pratica di un determinato Sutra e di parti di esso.
Al contrario delle religioni monoteiste, il Buddhismo è una filosofia, e la messa in discussione dei principi basilari della Fede attraverso l’osservazione della natura o esempi di pratica quotidiana è un’azione portante della nostra pratica.
Il principio secondo cui nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma nasce dall semplice osservazione della natura, il bruco che diventa farfalla, le feci dei buoi concime, il tè che se versato dalla tazza in qualunque altro recipiente, cambia di forma ma non in sostanza.
Quando ho deciso di rinunciare per sempre ai principi e ai sacramenti cattolici per convertirmi al Buddhismo, erano già molti anni che mi aggiravo nei pressi dell’oriente dove si respira un’aria diversa, dove anche l’iconografia è lontana dai nostri Santi “Splatter” con gli occhi in mano e le lance nel petto. Ciò che ho da subito amato del Buddhismo è stata la solarità delle immagini sacre, i colori, le parabole fantasiose e l’assoluta libertà su cui si fonda.
Ma partiamo dal principio.
Siamo nell’epoca che va approssimativamente dal 566 al 486 avanti Cristo. Come in molti sanno Shakyamuni era un Principe, un Principe ovviamente bello, vestito riccamente e ornato di gioielli. La tradizione racconta che suo padre, raja Suddhodana seppe da un indovino che quello, il suo unico figlio, sarebbe diventato un grande guerriero ma che lui avrebbe dovuto proteggerlo.
Il Re decise allora di difendere Shakyamuni a ogni costo e da ogni pericolo rinchiudendolo nei suoi territori all’interno di alte mura.
I pericoli ai quali si riferiva l’indovino, però, non erano armi o assalti nemici, ma la vita stessa e il suo svolgersi crudele per lui, come per noi tutti.
Un giorno, era appena ventenne, il Principe uscì con il suo servo per un giro in città e sulla strada vide un infermo che giaceva sulla strada e poi un altro e poi un vecchio e infine, giunse davanti a una pira che bruciava il corpo di un defunto e lì, il giovane crollò.
Da quel giorno, infatti, il sorridente Principe Shakyamuni s’intristì e non ebbe più pace.
Si tormentava di fronte alla sofferenza che si era resa manifesta ai suoi occhi e voleva, a tutti i costi, capirne l’origine e scoprirne la cura.
Aveva ventidue anni quando una notte di luna piena in cui il sonno aveva vinto tutti gli abitanti del suo regno, si rasò il capo, si spogliò delle ricche vesti e abbandonò la sua sposa Yashodhara, il suo bambino e il suo regno per andare in cerca del segreto per vincere le quattro sofferenze della vita.
Questo è il principio della storia, una storia valida per tutti i seguaci delle centinaia di sette e scuole di pensiero di cui Buddha Shakyamuni è il Buddha storico, il padre fondatore di tutte le dottrine di questa grande famiglia.
Ognuna delle leggende che parlano di lui, così come per tutti gli altri Profeti della storia, non è che una parabola, un insegnamento che serve all’adepto come guida, come esempio da seguire.
Shakyamuni dunque, abbandonò casa e famiglia per trovare una medicina che guarisse l’umanità intera dalle Quattro Sofferenze della vita che sono: nascita, malattia, vecchiaia e morte.
E così iniziò il suo cammino, fra i più lunghi compiuti da qualsiasi profeta si sia degnato di vivere fra noi e di condividere con noi la sua esperienza spirituale, infatti, Siddharta Gotama, predicò per circa quarant’anni e per tutta l’India. Tante, sono le foreste dove si racconta abbia soggiornato, predicato e meditato.
Come tutti i Maestri, anche Siddharta ebbe molti seguaci fedeli ma anche molti detrattori. Il primo periodo di meditazione fu quello più lungo e che gli costò quasi la vita e fu qui che ebbe la prima di una serie d’illuminazioni e la prima di una serie di scissioni.
Praticando la meditazione yoga e altre forme estreme di ascesi si stabilì presso il piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume Nerañjarā (l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per formare il fiume Phalgu, a pochi kilometri dall'odierna Bodh Gaya.
Un giorno, una ragazza di nome Sujata che passando di lì l’aveva visto piegato su se stesso e ridotto pelle e ossa, gli offrì un pugno di riso e fu in quel momento, che Siddharta si risvegliò alla prima Verità comprendendo che la “Via” può essere seguita anche attraverso una pratica meno dolorosa e disumana.
-Se tendi troppo l’arco lo spezzi, se lo tendi poco, non scoccherà nessuna freccia-
Questo è il primo grande insegnamento del Buddha: la via di mezzo.
Il secondo è quello che non esistono Dogmi prestabiliti e che la “Via” è un viaggio di conoscenza e di scoperte continue.
Avevo venticinque anni quando incontrai per la prima volta il Buddha.
Allora mi pareva di vivere in una sorta di “eterno ritorno”, in quella che in psicoanalisi viene anche definita, coazione a ripetere.
Nel mio percorso di vita mi si proponevano di continuo situazioni di sofferenza nelle quali m’immergevo sino al collo e senza pensarci più di tanto. Era come se andassi a cercare e di proposito, situazioni sentimentali ma anche lavorative, che mi procurassero dolore e mi ponessero di fronte ai mie fantasmi e alle mie paure.
A quell’epoca, appena terminata l’Accademia, andavo in giro per teatri e locali di Jazz abbandonandomi di buon grado all’uso di sostanze stupefacenti, in particolar modo di cocaina e alcol.
La mia vita di studentessa fuori sede, si svolgeva fra letto, palcoscenico e il bancone del bar.
Non ero più centrata, mi sentivo fuori asse, tutto ciò per cui avevo studiato, sembrava non avere più senso, i miei ideali scolorivano di fronte a quella vita fatta di corse in automobile e di nottate di jam session.
Erano anni che la spiritualità se ne stava in disparte, anni che l’avevo rinchiusa nel baule dei giochi.
Certo avevo studiato, il mio interesse per il mondo dell’inconoscibile era rimasto comunque desto, leggevo testi di Antroposofia, Castaneda con i suoi stregoni, compivo ricognizioni nel mondo esoterico, leggevo gli Arcani Maggiori e le trascrizioni delle ascesi di grandi Sante: Teresa, Chiara e Caterina.
Ma non sentivo più l’emozione di un tempo di fronte alla liturgia cattolica, il senso di affidamento che la Fede è in grado di dare al credente e comunque, era del senso di colpa di cui volevo liberarmi, era una maggiore libertà che cercavo e, per assurdo, anche un maggior rigore nella pratica.
Un giorno, ricordo che avevo un gran mal di testa da post sbronza, un amico m’invitò a una riunione di meditazione. Lì per lì inventai molte scuse per non accettare il suo invito, già sere prima mi aveva parlato a lungo di questa pratica incredibilmente concreta e miracolosa ma alla fine, e ancora oggi lo ringrazio, cedetti.
Timidamente entrai nell’appartamento, ma fui subito circondata da ragazzi e ragazze sorridenti, tutti furono gentili e premurosi con me ma a guardarli pregare in una lingua incomprensibile, in ginocchio e davanti a una pergamena fatta di segni strani, pensai di essere finita in mezzo a una massa di pazzi, in un manipolo di esaltati pericolosi.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai a quel suono cadenzato finché iniziai a ridere e piangere allo stesso tempo, e senza riuscire a fermarmi. Lì, davanti a tutti, come in uno psicodramma teatrale fu come se quel mantra avesse magicamente aperto le porte del dolore, un dolore evidentemente atavico e di cui credevo di non potermi liberare mai.
(continua...)

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