Questioni morali

Creato il 27 luglio 2011 da Andreaintonti
Qualche sera fa, finalmente oserei dire, la Rai si è ricordata di essere un servizio pubblico mandando in onda “Il Sorteggio” (per chi se lo fosse perso basta cliccare qui per vederlo in versione integrale), la storia di un giovane operaio della Fiat – Tonino – che da semplice “cittadino qualunque”, di quelli che alla politica non si interessano, viene chiamato (“sorteggiato”, appunto) come giudice popolare nel processo alle Brigate Rosse realmente tenutosi a Torino il 27 maggio 1976.
C'è un passaggio – più o meno ad un'ora dall'inizio del film – che mi ha dato da pensare. Tonino si trova a parlare con Gino, il delegato sindacale di fabbrica che fa un po' da “padre” a tutti gli altri operai:
«Sai cos'è lo Stato per me? È il 30 per cento di trattenute in busta paga, le tasse sulla benzina, le tasse sulla schedina, le tasse sulle sigarette...e poi, poi...se vado all'ospedale devo fare la fila, vado alla posta a ritirare quelle due lire di pensione di mio padre che è morto di silicosi in Sicilia prima che arrivasse a Torino e devo fare la fila, e spesso manco ce li trovo quei soldi Gino...e quel povero Gallo? Gli saltano tre dita e lo sbattono al reparto handicappati, così...questo è lo Stato che conosco, Gino!»
Nonostante l'evidente sfiducia la scelta – morale – di Tonino sarà poi decisiva per il processo che lo Stato farà alle Br. Non mi interessa qui entrare nel merito storico-politico di quegli avvenimenti. Mi interessa capire, invece, se oggi quel “processo” non debba essere ripreso. Parlo del processo morale, naturalmente. Che poi lo si voglia chiamare “questione” morale è indifferente. Un po' meno indifferente è, invece, capire se sia meglio declinare il tutto al singolare o se, come credo, sia necessario parlare di “questioni” morali, al plurale. Ma entriamo nel dettaglio
Tedesco, la questione morale del PD ed il “moralizzatore” anti-casta. “L'Anonymous italiano”, il “Julian Assange tricolore”, “la Wikileaks italiana”. Sono tanti i modi in cui – sui media ed in rete – viene descritto questo “SpiderTruman”, personaggio che sembra essersi preso l'onere e l'onore di fare il moralizzatore estivo del nostro paese.
Al di là del dibattito (sic!) legato all'usare o meno il proprio nome in rete, è davvero così importante smascherarlo (o smascherarla, eventualmente...)? Leggendo nei giorni scorsi qualche commento mi sono reso conto di una cosa: questo paese sta perdendo il senso delle dimensioni.
Molti “utenti”, infatti, perorano questo personaggio – perché di questo si tratta, alla fine – sostenendo che l'anonimato sia necessario per tutelare l'incolumità di chi si cela dietro la maschera di “SuperTruman”. Potrebbe anche essere così, se solo questo navigatore-blogger denunciasse qualcosa.
Perché fino ad ora non abbiamo fatto altro che assistere ad un'altra delle tante versioni del “denuncismo” che ormai da qualche anno pervade il dna italico. Come da più parti si è fatto notare, infatti, quelle denunce presenti sulla pagina facebook o sul blog sono per lo più riprese dal lavoro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo “La Casta” del 2007, riveduto e corretto l'anno successivo. D'accordo che nello stivale le librerie sono meno frequentate dei porno-shop e dunque quel libro evidentemente è stato letto da un numero esiguo di persone, ma come non è cambiato niente con l'uscita del libro niente cambierà nemmeno questa volta, e tra qualche mese – il tempo di trovare il prossimo “colpo” mediatico – questo pseudo-moralizzatore andrà a rimpinguare la ormai folta schiera di denunciatori di professione, quelli che denunciano dieci e scordano cento.
C'è una cosa che non ho mai capito nel rapporto tra media e lettori-moralizzati: perché si presta una così alta attenzione alla medio-grande firma che denuncia “la Casta” mentre i tantissimi giornalisti poco noti che, ad esempio, ci raccontano la quotidianità delle terre di Calabria mettendo in prima linea la propria incolumità vengono raramente presi in considerazione? Forse perché – checché ne possa pensare qualcuno – prendersela con la classe politica è più facile che prendersela con le cosche? Voglio dire: si è pronti a chiedere la testa (punto su cui torneremo in seguito) di chi non paga il telepass ma niente o quasi si dice a proposito del negozietto sotto casa usato come “lavanderia” o in merito al voto di scambio su cui ormai neanche si indaga più.
Ed ecco il secondo punto della (finta) spinta moralizzatrice iniziata questa estate, dove sembra essere diventato “onorevole” dimettersi se si viene toccati da una inchiesta giudiziaria. I casi si sprecano e, credo, non ci sia bisogno di fare “qualche nome”. Anche perché questa non è una “questione di nomi”: non è che togliendo un Tedesco, un Papa o un Penati qualsiasi troveremo magicamente una classe dirigente – e dunque una classe politica – di giusti e probi amministratori della Res Publica. Da Gaetano Bresci ad oggi non è mai stata colpa di un singolo quanto del contesto di cui quel singolo è espressione, per cui sostituire gli attuali inquisiti con qualcun altro vorrà dire semplicemente riparlare delle stesse cose se non si cambia il sistema che permette ad un politico di prendere e redistribuire bustarelle o nomine nella sanità (un aspetto sul quale, credo, si dovrebbe indagare maggiormente. Ma questa è un'altra storia...). Ma siamo davvero così sicuri di essere diversi? Siamo davvero certi che noi, al loro posto, sapremmo dire no alle auto blu, ai vitalizi, alle pensioni e a tutto il resto? «Se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare» cantava anni fa Fabrizio De André...
Magistratura elettorale. Ma quel “posto” in cui De André non sapeva stare, come chiunque abbia ascoltato almeno una volta la meravigliosa ”Nella mia ora di libertà” sa bene fosse tra “gli uomini e donne di tribunale”. Ed è proprio nella magistratura – e nell'”indotto” che da essa deriva – che va ricercata la seconda delle questioni morali di questo paese.
Perché è evidente che, al di là delle strumentalizzazioni utili nel gioco – o forse sarebbe meglio dire nel giogo – partitico, la questione di quale sia il ruolo che nella società ricoprono i giudici è una questione da tenere in conto.
«Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno titolo nel dibattito sui problemi della giustizia e nell'analisi del rinnovato rapporto tra il magistrato ed il tessuto sociale nella cui trama egli si colloca» - sostenne in un discorso tenuto al Rotary Club di Canicattì (Agrigento) il 7 aprile 1984 Rosario Livatino, il “ giudice ragazzino” ucciso dalla Stidda il 21 settembre 1990. A questo punto il discorso è duplice: da una parte il sempre maggiore coinvolgimento nelle vicende giudiziarie dall'altro lato del banco, quello degli imputati, per il quale bisognerebbe andare ad indagare nei rapporti tra l'individuo, il Potere ed i modi – più o meno leciti, evidentemente – per raggiungerlo. Dall'altra, invece, abbiamo il secondo comma dell'articolo 101 ed il primo comma dell'art. 104 della Costituzione Italiana: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge», «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». A questo punto, dunque, la domanda è lecita: se – attenendoci alla carta costituzionale – l'unica ideologia a cui i giudici devono attenersi è la legge, a cosa serve la loro divisione in correnti? Dato l'alto numero di magistrati che passano tranquillamente “dalla cattedra di un tribunale” al seggio forse la risposta non è così difficile da trovare. A che punto del codice deontologico si è passati dalla contrapposizione dei tempi del giudice Livatino o di Paolo Borsellino a quelli della scuola di “Magistratura elettorale” (una corrente evidentemente bipartisan) che oggi fa di molti (ex) magistrati sindaci o parlamentari? Può un magistrato presentarsi ad una manifestazione di natura puramente politica (fatta da partiti più o meno grandi o da movimenti comunque di ispirazione prettamente partitico-politica) e poi tornare, il giorno dopo, a fare il proprio mestiere (rap)presentandosi con la stessa libertà ed imparzialità che aveva due giorni prima? Io credo che un conto sia il magistrato chiamato a parlare del suo mestiere – come ha fatto, ad esempio, Nicola Gratteri intervistato da Gianluigi Nuzzi al Festival del giornalismo di Perugia - un'altra, invece, sia quella in cui si decide di “scendere in campo” patteggiando per una delle due squadre, nonostante la funzione tribunizia venga comunque preservata.
La sinistra dei forconi ed i processi del popolo. Nel mezzo c'è il popolo, c'è la gente comune, l'”uomo della strada” o la “casalinga di Voghera” come si suol dire.
Persone disposte a mettere le manette ai piccoli reati (o ai “reati per fame”, ad esempio...) ma che nulla chiedono per i grandi reati nell'ambito economico-finanziari, basti pensare a questioni come il falso in bilancio o il reato di auto-riciclaggio. Forse che parlare di questi reati voglia dire, di fatto, parlare non solo della "Casta"?
«È un paradosso. Credi di dover fare in modo accurato il tuo lavoro di cronista per illuminare nell'interesse dell'opinione pubblica, di quella "società civile", gli angoli bui e sporchi del cortile di casa. Poi scopri che sei un ingenuo. Nessuno vuole guardare da quella parte, in quegli angoli – no – preferiscono voltarsi da un'altra parte anche se stai lì a tirargli la giacchetta». [Lirio Abbate]

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