Alle cinque del pomeriggio è già notte. L’asfalto è lucido di pioggia, ne è caduta per tutto il giorno, una pioggia insensibile. Anche i palazzi di questa periferia sono lucidi, grigi e lucidi, risaltano sul cielo blu di prussia. Mentre vai verso la macchina c’è un vento freddo che ti colpisce al viso. Sei sfuggito appena adesso dai corridoi grigio melma del posto in cui lavori (sono cinque anni esatti, oggi, che sei qui), dai neon freddi sparati sui pavimenti, in cui il miglior esercizio mentale che puoi fare è entrare per un istante nei pensieri di un aspirante suicida, accarezzarli con mano, e poi uscirne scioccato, un secondo dopo, come se te ne andassi dalla casa di uno sconosciuto. Però adesso tu sai, li senti, i loro rumori e i loro silenzi, li trituri con i denti, tu sai quali sono i pensieri di uno che attraversa le vallate della morte, ed è qualcosa di così banale, qualcosa che ha che fare con l’angolo buio di un sottoscala, con la porta a vetri di un ufficio pubblico di sera, con particolari infinitesimale che hanno il potere di riallacciarsi alla tua infanzia spietata, alla coltre sottile che copriva la cassa in cui riponevi i giochi. Allora ti allontani imbarazzato, con le mani insaccate nei pantaloni, scendi da quelle alture e lasci che le luci si spengano, che torni alla tua tranquilla invariabile monotonia, al tuo carro protettore, alle piccole cose in cui credi. Questo è il giusto.
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