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Questo maledetto “vivere” (scusa, Kerouac)

Da Fishcanfly @marcodecave

Questo non sarà un articolo nato da una ricerca accademica, e neanche qualcosa di ironico. Quindi per chi cercasse queste due categorie di lettura, può anche chiudere qui questo post. Gli altri che non hanno di meglio da fare, possono pure proseguire.

Tutto ha avuto inizio con Kerouac. C’è sempre un capro espiatorio. Una data zero nella quale fissare l’inizio dell’Universo, o almeno un calendario, più o meno gregoriano. Avrebbe potuto trattarsi, forse, anche di un libretto di spiegazione (li fanno ancora i libretti d’istruzione? C’è ancora qualcuno che ha voglia d’istruirsi?) sul funzionamento dell’ultimo modello di lavatrice.

Il punto è come si guarda il mondo. Poi saremo anche liberi di fare la nostra caccia mentale alle streghe mentre ce ne stiamo sdraiati sul lettino dello psicanalista, o sul letto di un anonimo motel in terra straniera, chiedendoci, in entrambi i casi:

Come sono arrivato a questo punto?

Ma, dicevamo, Kerouac. A mio modo di vedere posso dire che oggi ho travisato la sua lettura, la lettura, certamente insufficiente all’epoca, di “On the road”. E, aggiungo, con l’occhio clinico e distaccato di un medico legale davanti alla lettiga di un cadavere:

Si è trattato di un mix.

Mix: parola dall’aria vagamente anglosassone e minacciosa. Sarà stata l’età, le domande irrisolte che uno si portava dentro, la voglia di avere tutto e subito come Al Pacino:

Io voglio il mondo, chico, e tutto quello che c’è dentro

Legittima pretesa, è vero. Forse.

Ma in tutto questo è capitato Kerouac: mito che si è costruito e con il tempo si è allungato come un’ombra sulle nostre esistenze. Ma siamo noi a costruire i miti, siamo noi i responsabili dei totem. E le ombre si allungano, quando il sole tramonta.

Ignaro del tramonto del sole, mi sono fidato dell’ombra (non di Kerouac, che non ha nessuna colpa).

La parola “vivere” ha iniziato a inseguirmi, ad inseguirci (ero in buona compagnia), cercando da sè una risposta impossibile.

Ogni volta che dicevo “Sono vivo”, la voce giungeva dalle profondità dell’oltretomba. Ogni volta che dicevo “Ecco, sono arrivato!”, di nuovo tutto sfuggiva. Eppure avevo letto Siddharta ben prima di “Sulla strada”. Ma, nello stesso modo in cui c’è un tempo per ogni lettura, c’è un tempo per ogni prospettiva.

La verità è che non c’è nessuna verità da affermare o declamare. Vivere? Tanto semplice quanto banale. Oggi forse so. E non voglio né togliere il “forse”, né provare a spiegare. Perché se ne andrebbe via tutta la meraviglia.

E poi il dolore, e la retorica, e le parole, e la gioia…dobbiamo chiudere questa partita. E la si chiude solo in un modo: continuando a giocare.

Questo maledetto “vivere” (scusa, Kerouac)



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