Hollywood. Un mondo di celluloide tridimensionale, graffiante come una pantera che perde la sua sinuosità, e, ubriaca, tende a mostrarsi più sfrontata e circense del solito. Hollywood è un gran “circo” (Fellini), di “protagonisti” (Altman), disadattato ed impervio, sull’orlo del “disastro” (Levinson). E se le star hanno la grande idea di accrescere i lati pubblicitari delle loro immagini, c’è un tipo di stampa compiacente che sottolinea come ogni goffaggine, astutamente preparata col contagocce ed un giusto misurino, sia una fragranza nuova, un delicato sapore, un eccentrico salto di gioia giovanile, la scoperta di un nuovo modo di intendere la realtà, la rivoluzionaria scelta di assecondare territori inesplorati nella recitazione e nelle abilità registiche. Hollywood vive una “Dolce Vita” danzante, sguaiata, inetta: rigonfia d’alcool, di nevischio setacciato che si conserva in una bustina, come se fosse un ricordo di qualche viaggio, o come i semi piccolissimi di una nuova pianta; l’escort ruggisce come un ghepardo, e mostra artigli che in pochi si aspettavano, i servizi e le prime pagine di foto suonano tanto di pesce d’Aprile (Megan Fox suora è un vecchio teaser che ha catturato un’orda d’attenzione), un maialino, spacciato della stirpe regale del vecchio caro Babe, terza generazione, quasi riesce ad entrare in un party esclusivo ad inviti, ed un cane ha “problematiche psicologiche”, a quanto ne può intendere l’attrice-oca di turno ( e Megan è così brava in questo ruolo, da sembrare di non “interpretare” solamente lo stesso, ma di “viverlo”, e probabilmente la verità è assai vicina alla finzione). La Dolce Vita di Fellini era uno sguardo amaro, spietato, di momenti che sembrano docili e poetici, ma inquadrabili in un pessimismo fosco, che è base del significato artistico, storico e sociale. Il decadimento, ora, diventa, entertainment, perde tutto l’amarognolo, non l’invettiva, ma pacifica con un tocco da commedia, che, citazione del Lebowski, Godard affisso nella stanza del capo, frasi sciorinate da film e dispute sulla miglior pellicola di sempre (e “Conair” è una scelta troppo assurda per non far sbellicare), esplode dai soliti pori e spiazza con il suo cinismo, la sua capacità di assorbire dalle ultime generazioni di comedy americane, senza perdere il giusto gusto di qualche atmosfera british, e giungendo ad esprimere una poetica toccante, ma meno esplosiva per l’happy-end. Sgarbata, scorretta, a tratti rumorosa e di un volgare irresistibile, “Star System” ci parla di un certo Sidney Young, master in filosofia, discendenza paterna altolocata, materna di un certo rigore artistico, scurrile, irriverente, un po’ perdigiorno all’inizio, manesco, divertente, che dal cuore pulsante dell’Europa, dall’Inghilterra con una piccola rivista, passa sotto le mani dispotiche del magazine Snaps, un Vanity Fair quasi prettamente cinematografico, in cui ogni pedina si muove su un filo sottile di legami, e ogni legame si inserisce nel gioco di soldi, di successo, di buonismo che giunge a decantare gli affiliati dell’ufficio stampa. Simon Pegg, un po’ Mr. Bean, è fantastico, un attore promettente con un grande stile. Al suo fianco, Alison, Kirsten Dunst, giornalista e romanziera. L’ultima scena, le coperte, il prato ed un film, quel film, quella musica, quelle immagini, quella decadenza che, se interiore e sociale, si scontrava con la grandiosità del cinema, sembra uscita dal neorealismo, citazione pacificata. Attendendo i 15 minuti di gloria, per chi arde di esibizionismo, o sperando che passino in fretta, per chi arde di livore. Se cerchete il divertimento da show-bussiness siete in linea con la pellicola, qualora cerchiate altro, rivolgetevi altrove. Il libro da cui è tratto, per esempio, non sarà da premio Pulitzer, ma è intelligente. Il film una trasposizione divertente e divertita.
Hollywood. Un mondo di celluloide tridimensionale, graffiante come una pantera che perde la sua sinuosità, e, ubriaca, tende a mostrarsi più sfrontata e circense del solito. Hollywood è un gran “circo” (Fellini), di “protagonisti” (Altman), disadattato ed impervio, sull’orlo del “disastro” (Levinson). E se le star hanno la grande idea di accrescere i lati pubblicitari delle loro immagini, c’è un tipo di stampa compiacente che sottolinea come ogni goffaggine, astutamente preparata col contagocce ed un giusto misurino, sia una fragranza nuova, un delicato sapore, un eccentrico salto di gioia giovanile, la scoperta di un nuovo modo di intendere la realtà, la rivoluzionaria scelta di assecondare territori inesplorati nella recitazione e nelle abilità registiche. Hollywood vive una “Dolce Vita” danzante, sguaiata, inetta: rigonfia d’alcool, di nevischio setacciato che si conserva in una bustina, come se fosse un ricordo di qualche viaggio, o come i semi piccolissimi di una nuova pianta; l’escort ruggisce come un ghepardo, e mostra artigli che in pochi si aspettavano, i servizi e le prime pagine di foto suonano tanto di pesce d’Aprile (Megan Fox suora è un vecchio teaser che ha catturato un’orda d’attenzione), un maialino, spacciato della stirpe regale del vecchio caro Babe, terza generazione, quasi riesce ad entrare in un party esclusivo ad inviti, ed un cane ha “problematiche psicologiche”, a quanto ne può intendere l’attrice-oca di turno ( e Megan è così brava in questo ruolo, da sembrare di non “interpretare” solamente lo stesso, ma di “viverlo”, e probabilmente la verità è assai vicina alla finzione). La Dolce Vita di Fellini era uno sguardo amaro, spietato, di momenti che sembrano docili e poetici, ma inquadrabili in un pessimismo fosco, che è base del significato artistico, storico e sociale. Il decadimento, ora, diventa, entertainment, perde tutto l’amarognolo, non l’invettiva, ma pacifica con un tocco da commedia, che, citazione del Lebowski, Godard affisso nella stanza del capo, frasi sciorinate da film e dispute sulla miglior pellicola di sempre (e “Conair” è una scelta troppo assurda per non far sbellicare), esplode dai soliti pori e spiazza con il suo cinismo, la sua capacità di assorbire dalle ultime generazioni di comedy americane, senza perdere il giusto gusto di qualche atmosfera british, e giungendo ad esprimere una poetica toccante, ma meno esplosiva per l’happy-end. Sgarbata, scorretta, a tratti rumorosa e di un volgare irresistibile, “Star System” ci parla di un certo Sidney Young, master in filosofia, discendenza paterna altolocata, materna di un certo rigore artistico, scurrile, irriverente, un po’ perdigiorno all’inizio, manesco, divertente, che dal cuore pulsante dell’Europa, dall’Inghilterra con una piccola rivista, passa sotto le mani dispotiche del magazine Snaps, un Vanity Fair quasi prettamente cinematografico, in cui ogni pedina si muove su un filo sottile di legami, e ogni legame si inserisce nel gioco di soldi, di successo, di buonismo che giunge a decantare gli affiliati dell’ufficio stampa. Simon Pegg, un po’ Mr. Bean, è fantastico, un attore promettente con un grande stile. Al suo fianco, Alison, Kirsten Dunst, giornalista e romanziera. L’ultima scena, le coperte, il prato ed un film, quel film, quella musica, quelle immagini, quella decadenza che, se interiore e sociale, si scontrava con la grandiosità del cinema, sembra uscita dal neorealismo, citazione pacificata. Attendendo i 15 minuti di gloria, per chi arde di esibizionismo, o sperando che passino in fretta, per chi arde di livore. Se cerchete il divertimento da show-bussiness siete in linea con la pellicola, qualora cerchiate altro, rivolgetevi altrove. Il libro da cui è tratto, per esempio, non sarà da premio Pulitzer, ma è intelligente. Il film una trasposizione divertente e divertita.
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