Chi vuole ammirare i capolavori della nostra architettura – restaurati e portati alla primigenia bellezza – deve prima sorbirsi mesi e mesi di sponsor, opportunamente impressi in enormi teloni raffiguranti pannolini, automobili e cibo per cani. Quando va bene, donne in mutande e reggiseno. Se ne rammaricano a Venezia (ma qualche mugugno si sente anche a Parma), dove enormi poster su arcate e guglie nascondono il work in progress. Lo chiamano project financing, un'alleanza contaminabile tra pubblico e privato. Di soldi nelle casse statali non ce ne sono più, e l'unico modo per dare una parvenza di dignità alle nostre città è quello di mettersi insieme a qualche palazzinaro e strizzare l'occhio alle multinazionali della pubblicità. Una decina di anni fa, il leader degli U2, Bono Vox, con brutale semplicità disse che “non esiste qualcuno che sborsi denaro e che poi non pretenda che gli si lecchi il culo”. Disse questa frase rifiutando fior di quattrini che uno sponsor offriva a lui e alla sua band per mettere un logo sopra alle loro note immortali. Certo, per gli U2, che sono il gruppo rock più potente al mondo – in termini di volume di suono e volume di affari – la scelta di non appaltare ad alcuna azienda porzioni del loro lavoro, fu abbastanza facile. Per lo Stato, invece, l'impresa è diventata titanica; tanto titanica che nessuno si pone più il problema se la pratica sia etica o meno. Tutto ciò che viene mostrato, detto o cantato, al giorno d'oggi, deve essere marchiato a caldo da una azienda. Perfino le previsioni meteorologiche “sono offerte da...”. Ma da chi? Da Dio, da Giove Pluvio? Dall'osservatorio di Santa Maria di Leuca? No: da chi, pagando, può fare, come dice il proverbio “il bello e il cattivo tempo”.
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Chi vuole ammirare i capolavori della nostra architettura – restaurati e portati alla primigenia bellezza – deve prima sorbirsi mesi e mesi di sponsor, opportunamente impressi in enormi teloni raffiguranti pannolini, automobili e cibo per cani. Quando va bene, donne in mutande e reggiseno. Se ne rammaricano a Venezia (ma qualche mugugno si sente anche a Parma), dove enormi poster su arcate e guglie nascondono il work in progress. Lo chiamano project financing, un'alleanza contaminabile tra pubblico e privato. Di soldi nelle casse statali non ce ne sono più, e l'unico modo per dare una parvenza di dignità alle nostre città è quello di mettersi insieme a qualche palazzinaro e strizzare l'occhio alle multinazionali della pubblicità. Una decina di anni fa, il leader degli U2, Bono Vox, con brutale semplicità disse che “non esiste qualcuno che sborsi denaro e che poi non pretenda che gli si lecchi il culo”. Disse questa frase rifiutando fior di quattrini che uno sponsor offriva a lui e alla sua band per mettere un logo sopra alle loro note immortali. Certo, per gli U2, che sono il gruppo rock più potente al mondo – in termini di volume di suono e volume di affari – la scelta di non appaltare ad alcuna azienda porzioni del loro lavoro, fu abbastanza facile. Per lo Stato, invece, l'impresa è diventata titanica; tanto titanica che nessuno si pone più il problema se la pratica sia etica o meno. Tutto ciò che viene mostrato, detto o cantato, al giorno d'oggi, deve essere marchiato a caldo da una azienda. Perfino le previsioni meteorologiche “sono offerte da...”. Ma da chi? Da Dio, da Giove Pluvio? Dall'osservatorio di Santa Maria di Leuca? No: da chi, pagando, può fare, come dice il proverbio “il bello e il cattivo tempo”.
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