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Qui dove i monaci rissosi imparano a volare

Creato il 30 maggio 2011 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

Qui dove i monaci rissosi imparano a volare

Vittorio Bodini

“Ho rimesso finalmente la sveglia sul mio pomeriggio, ho da vedere la piazza alle cinque in punto, contare i mattoni che portano alla chiesa, rimestare il catrame spezzato negli angoli e buttato lì a coprire le buche, devo battezzare tutte le lucertole che da bambino mi son scappate, rimbiancare tutti i muri della mia infanzia, quelli neri di carie che bruciavano la schiena, quelli rossi di malta povera che scrostavano le dita.”

Vittorio ha le mani in tasca e odia i miei risvegli. Lui vive i suoi sapori, li accarezza con il tocco magico dei simboli, lui ama questa terra, e le dipinge gli occhi per renderla più bella, lui ama accarezzarle il viso per farla arrossire. Vittorio ama questa terra e i suoi tramonti, quando scolora quel bianco antico delle nostre case, quando le tortore imitano l’ultimo spettacolo prima di riposare, quando anche il sudore della fronte diventa racconto. In quella ora della giornata radunata dietro il samporto a chiedere una tregua ai pensieri, per chiedere giustizia ai ricordi. Per lui tutto è ricordo. Ricordo di panni messi ad asciugare come pomodori in estate, sul filo teso della propria vita, sul filo appoggiato a un chiodo malfermo come dentro un cranio vuoto. Vittorio mi parla spesso in spagnolo, sperando di non farsi capire, quelle mezze parole dette piano, come se aspettasse un miracolo, come se aspettasse un applauso, prima di voltare la faccia e tornare a vegliare insonne la luna.”

Perché sei tornato, Vittorio, in questo pomeriggio di nuvole assorte, dove il biancospino serpeggia felice sul muro e la lucertola tira morsi al sole e sfida l’erba secca negli angoli?

Ho visto il cielo, Lele, l’ho rivisto finalmente. Ero seduto sulla parte nuova dell’universo e cercavo di vedere spuntare di nuovo l’alba, ma non riuscivo ad intravedere nulla. Ho mollato l’amo sul fondo della barca che mi porta di solito in giro, ho rimesso l’esca nei pantaloni buoni della domenica, ho virato i ricordi sulla faccia della mia luna e son tornato.

Qui manca l’aria, tutto è uguale al giorno prima e al giorno dopo, trovi tutto già scritto da tempo e non bisogna far la fila alla noia, questa terra è profumo antico di stagioni simili, vestito rivoltato di ogni secolo passato ma è sangue, vero, certo, di vene affioranti e pulsanti che si gonfiano all’improvviso permettendo di respirare. Questa terra è palude di confino, dove l’eremita scrive le proprie passioni senza averle mai vissute,solo ascoltando il rumore del cuore. Qui viene a morire il minotauro e icaro il nano, qui viene a morire satanasso e i papas, qui anche la terra finisce e si getta ancora viva in mare.

Troveremo tutto già scritto, Vittorio? Ho ancora molti passi da compiere prima che la luna cavalchi l’asino della notte, ho da riempire tutte le buche di questa mattina, con sabbia e catrame e con la cartapesta che ci rimane fra le dita.

Nel paese dove son cresciuto vi era una strada in discesa, te la ricordi Lele? Dove passavamo i pomeriggi a grattarci la schiena e a rincorrere l’ombra, come scimmie urlanti nella stessa gabbia di bitume e selciato, a tirare i sassi lontano con la speranza che tornassero indietro placcati nell’oro; in quella strada ho cominciato a scrivere sui muri e sempre sul quel muro che porta alla Torre du Pascali, ho scritto l’ultime cose. Adesso non ho più parole. Adesso vedo solo processioni di donne e uomini vestiti a festa che fan la fila per il pianto e per il riso, che fanno a fette il passato per farne ammenniccoli da dare al turista distratto che crede di dover ballarci sopra per forza. Non più rimorso ma rimpianto. Terra di poca terra dove scriverci ancora è fatica, dove diventa più semplice mettersi attorno e riprendere il ballo. Non so se troveremo tutto già scritto, Lele, ma qui dove la piazza cantava le ninna nanne in salsa di pomodoro e foglie di tabacco, qui dove uscivamo in fila al sole per cantare la vita, qui è diventato difficile raccontarci le nostre stesse storie.

Ho voglia di un caffè, Vittorio, andiamo a sederci un momento a quel tavolo, ho bisogno ancora di sentirti parlare.

Lascia stare le mie parole, Lele, lascia perdere anche i ricordi, lasciamo stare un momento anche questa città andiamo nel sonno, andiamo a vedere finalmente che succede.

Vittorio non riuscì a finire la frase, alzò lo sguardo in alto e salutò con un cenno della testa un vecchio con una croce in spalla che volava lì d’attorno.


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