F. Bertolozzo, 080506_01 dalla serie Un habitat italiano
Fulvio Bertolozzo non è forse un nome conosciutissimo nel mondo della fotografia, purtroppo. Purtroppo perché in lui io vedo incarnato il senso della ricerca allo stato puro, al di là di ciò che provoca il “mi piace”, “funziona”, l'applauso insomma.
Quando scelgo di parlare di qualcuno non sempre lo faccio valutando in modo asettico e professionale il valore culturale, artistico, contemporaneo del fotografo (che qui comunque non mancano), mi riservo anche il diritto di segnalare persone la cui opera ha per me un significato particolare, quasi personale. Quando avevo 17 anni mi era venuta l'idea di realizzare delle immagini che illustrassero la “desolazione” (pensate in che posto allegro devo vivere), così sono andata in giro per un po' con la bici e la macchina a fotografare fabbriche, ciminiere, discariche, ma il risultato non fu esaltante. Il risultato avrebbero dovuto essere queste foto. Dopo le schiere di “bekerini”, “basilichini” e “struttini” - imitatori – è arrivato Fulvio che dà un senso profondo a quello che inquadra, perché ci crede e questo traspare. Fotografare un parcheggio, una strada sterrata, fabbriche dismesse, case allo sfascio, porte arrugginite in campi da calcio scorticati, depositi di camion, cantieri lasciati a metà, passi carrai e farlo con tanta costanza e coerenza vuol dire avere intelligenza. Vuol dire scoprire una declinazione del reportage. Perché noi quelle immagini le vediamo tutti i giorni e le vediamo con quei colori lì slavati, con quel cielo informe e compatto e inquinato, con quello spazio sgraziato, compresso tra file di case e allo stesso tempo così vuoto, che ci fa pensare: “Guarda non c'è in giro un cane... o forse sono io solo come un cane”.
F. Bertolozzo, 080215_01 dalla serie Un habitat italiano
F. Bertolozzo, 080325_02 dalla serie Un habitat italiano
F. Bertolozzo, 080401_02 dalla serie Un habitat italiano
F. Bertolozzo, 2011, Torino dalla serie Passi carrai
F. Bertolozzo, 080215_02 dalla serie Un habitat italiano