R2P: il falso perbenismo

Creato il 20 marzo 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

L’idea della sovranità statale è una costante storica che rientra nel campo di interesse delle relazioni internazionali. Nel momento in cui è riconosciuta importanza primaria alla sovranità statale, diviene logica conseguenza la presa d’atto di un sistema a carattere anarchico1 della politica internazionale2, in puro stile hobbesiano: “ma anche se vi fosse mai stato un tempo in cui i singoli individui si trovassero in condizione di guerra tra loro; pure in ogni tempo i re e le persone di autorità sovrana, a causa della loro indipendenza, si sono sospettati reciprocamente, ponendosi nella condizione e nell’atteggiamento dei gladiatori, con le armi puntate e gli occhi fissi negli occhi: cioè, munendo di forti, di guarnigioni e di armi le frontiere dei loro regni; e inviando di continuo delle spie nei regni vicini; ciò costituisce un atteggiamento di guerra3. Un potere supremo ben esemplificato dall’espressione latina “superiorem non recognoscens”.

Tale sistema anarchico non concepisce l’esistenza di un rapporto di cooperazione tra Stati, decisamente troppo impegnati a rafforzare il proprio sistema di sicurezza in assenza di reciproca fiducia: “il dilemma della sicurezza presuppone una situazione in cui le azioni degli stati, adottate per garantire la propria sicurezza, tendono a minacciare la sicurezza di altri stati4. Si tratta di una visione estremamente pessimistica e in linea con il realismo politico di Carl Schmitt, secondo il quale l’uomo è un essere pericoloso e la caratteristica fondamentale della politica è l’inimicizia5. Proprio perché si tratta di un sistema, è necessario considerarne le interazioni che lo rendono vivo e in costante movimento, e che si realizzano in una cooperazione che in passato era mossa da fini ancora individualistici se non egoistici e che successivamente, nella storia più recente, ha trovato espressione anche in principi che vanno oltre la sovranità statale.

Il fenomeno moderno della globalizzazione pare infatti delegittimare i presupposti di siffatta sovranità. Con i dichiarati obiettivi del mantenimento della pace e della diffusione della democrazia, il mondo occidentale ha giustificato il proprio intervento negli scenari globali di crisi. Si è tuttavia rilevato come le storiche operazioni in Kosovo, Somalia, Bosnia e Rwuanda abbiano rappresentato esempi paradigmatici di un interventismo maldestro ed esasperato: “The international community in the last decade repeatedly made a mess of handling the many demands that were made for “humanitarian intervention”: coercive action against a state to protect people within its borders from suffering grave harm. There were no agreed rules for handling cases such as Somalia, Bosnia, Rwanda, and Kosovo at the start of the 1990s, and there remain none today. Disagreement continues about whether there is a right of intervention, how and when it should be exercised, and under whose authority6.

Già con la Pace di Westfalia del 1648 emerse che l’uso della forza nei rapporti tra stati ha costantemente incontrato profonde divergenze di vedute, pur mantenendo un certo grado di legittimità data l’assenza di vere e proprie sanzioni7. Su tali basi, il modello di Kissinger dell’hub and spoke8 pare concretizzarsi realmente attorno alla paterna figura degli USA e dei propri satelliti occidentali, impegnati nella lotta contro le dittature e le guerriglie che hanno condotto a massacri di intere popolazioni9. In questa prospettiva l’intervento militare non dovrebbe avere apparentemente nulla ha a che vedere con le finalità che tradizionalmente hanno giustificato azioni di guerra nei confronti di stati sovrani; dovrebbe quindi concretizzarsi in operazioni avulse da quegli interessi egoistici individuati da Thomas Hobbes e da molti realisti del passato. Tuttavia un grande studioso di relazioni internazionali, Thomas Frank, nel suo saggio “Interpretation and change in the law of humanitarian intervention“, palesa una certa diffidenza verso gli interventi scaturiti da una responsabilità di protezione.

Egli suddivide tali interventi in due categorie ben distinte qualificandoli come umanitari genuini e umanitari opportunistici10. Appare necessaria, in tali circostanze, una verifica concreta delle motivazioni che spingono a un intervento coadiuvato dall’uso della forza in uno stato terzo, la cui sovranità subisce inevitabilmente una deroga sotto l’iniziativa altrui. Interventi dettati da volontà di ingerenza sono stati la chiave di volta delle strategie USA con l’inizio del nuovo millennio, quando l’uso della forza era divenuto l’asse portante del modus operandi americano sotto la presidenza Bush, finalizzato a una vera e propria guerra preventiva. Tale strategia ha trovato concreta attuazione con l’intervento in Iraq. L’azione operativa in questione fu finanche priva del consenso della NATO, l’organismo allora custode dell’arbitrio nel panorama dell’intervento umanitario.

Da circa quindici anni a questa parte l’intervento umanitario soggiace al termine responsability to protect (R2P). La stessa terminologia scelta non è stata esente da critiche: “Using this alternative language will help shake up the policy debate, getting governments in particular to think afresh about what the real issues are. Changing the terminology from “intervention” to “protection” gets away from the language of “humanitarian intervention. “The latter term has always deeply concerned humanitarian relief organizations, which have hated the association of “humanitarian” with military activity. Beyond that, talking about the “responsibility to protect” rather than the “right to intervene” has three other big advantages11. Più in generale, le argomentazioni sfavorevoli a una concreta attuazione della R2P hanno trovato base nel diritto internazionale classico che ha costantemente avversato l’ingerenza tra stati.

L’intervento umanitario ha assunto grande rilievo con le evoluzioni degli ultimi decenni nel panorama internazionale. La finalità dell’intervento si mostra come il frutto di una modernità che oltrepassa i limiti della sovranità statale, almeno in superficie, e che parrebbe voler attualizzare la kantiana pace perpetua, la quale troverebbe nuova linfa nelle teorie idealiste delle relazioni internazionali. Più in concreto, in tal senso, la centralità assunta dalla persona fisica rispetto alla sovranità statale è la più attuale conseguenza della modernità. La crescente influenza delle ONG sta, lentamente, erodendo e scavalcando la sovranità e l’individualismo degli stati anche dal punto di vista delle fonti del diritto. Tale novità da un lato è dovuta al mancato raggiungimento di una unione politica tra gli stati nel panorama internazionale, dall’altro a una struttura organizzativa ed amministrativa decisamente più adattabile rispetto ad organismi internazionali pubblici. Essa rappresenta dunque un apporto nuovo, supportato principalmente dalle teorie delle relazioni internazionali a carattere costruttivista, che per prime hanno sostenuto una concezione di politica internazionale intesa come vero e proprio fenomeno sociale, sulla base della “socievolezza” dei rapporti interstatali12.

Attualmente i principi sanciti della R2P sono il frutto del 2005 World Summit Outcome, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che riconosce a carico di ogni stato la responsabilità di proteggere le sue popolazioni. Se i mezzi pacifici risultano inadeguati e le autorità nazionali non offrono protezione, può essere avviata un’azione collettiva, attraverso il Consiglio di sicurezza, in conformità alla Carta dell’Onu, in collaborazione con le organizzazioni regionali13.

Sulla base di passati e attuali esempi di ingerenza giustificata dal principio di R2P, il Prof. Jean Bricmont scrive:
«L’ideologia dell’intervento umanitario è parte di una lunga storia di atteggiamenti occidentali nei confronti del resto del mondo. Quando i colonialisti occidentali giunsero sulle coste delle Americhe, dell’Africa o dell’Estremo Oriente, rimasero colpiti da ciò che noi adesso chiameremmo violazioni dei diritti umani, e che essi chiamarono “costumi barbari”: sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a fasciarsi i piedi. Di volta in volta questa indignazione, sincera o artefatta, è stata usata per giustificare o coprire i crimini delle potenze occidentali»14.

Nel contesto generale, gli interventi giustificati sulla base della R2P sono invero stati mossi da interessi che spesso esulano dalla finalità di tutela dei diritti umani. Inoltre, i mezzi di comunicazione, in casi paradigmatici quali la Libia, la Siria e il Kosovo hanno giocato un ruolo determinante, contribuendo in maniera significativa a creare i presupposti desiderati dai paesi occidentali, i quali hanno cercato, e spesso trovato, nelle rivolte locali l’appoggio per far crollare governi politicamente sgraditi. Più in generale, i media hanno contribuito a rappresentazioni di situazioni di conflitto e crisi umanitaria basate su double standards; in conclusione, e a titolo puramente esemplificativo, possono richiamarsi sul punto le parole di Padre Bernardo Cervellera in merito all’attuale situazione in Siria:
«Il male quando è compiuto non conosce distinzioni di partito o di posizioni politiche. L’Occidente forse non potenzia le operazioni militari per difendere la libertà? E perché Assad (anche se è sbagliato) non può farlo? Anche lui nel suo paese è stato eletto dal popolo. Poi se si è trasformato nel mostro di cui si parla, questo è un altro discorso. Oppure crediamo che le bombe lanciate dai ribelli sono intelligenti e legittime e quelle sganciate dal parlamento per difendere il paese, sono cattive e distruttive?15.


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