PULCE E IL TERZO COLPO
C’era il sole ma non ci metteva l’anima e faceva frescolino, doveva essere un sostituto, e io ero bello tranquillo sul dondolo a leggermi Cristo sui pattini a rotelle.
Sentii arrivare la mia dolce vicina Karin con la figlia Yara. Le stava dicendo di non strappare i fiori, se no quei signori sgridavano. “Quei signori” erano l’architetto. Un idiota che vive per tagliare l’erba e spiare i vicini. Aveva già avuto due infarti, ma un giorno sì e uno no tagliava l’erba sotto il sole cocente, l’astro titolare s’intende, e rompeva i coglioni al mondo con quel cazzo di rumore, e il terzo colpo non gli era ancora venuto. Certo, faceva una gran pena, poveraccio. Mi avrebbe fatto meno pena se fosse stato alcolizzato o simili. Il giorno che non tagliava l’erba usciva ogni dieci minuti e pattugliava avanti e indietro, per controllare la ricrescita. I fili d’erba che crescevano dovevano dargli dei gravi problemi psichiatrici. Odio la merda di cui s’ingrassano gli psic-anal-isti, ma i fili d’erba dovevano essere per lui qualcosa di veramente terribile, tipo i peli del cazzo di suo nonno che lo molestava da piccolo. La sua vita era questo. Tagliava l’erba rumorosamente e spiava. Spiava e tagliava l’erba. Oppure ti spiava con la scusa che stava tagliando l’erba, e allora si divertiva davvero. Se non stava tagliando l’erba, per spiare si appostava fra i cespugli o dietro il ciliegio. Lo beccavi quasi sempre ma lui non si scomponeva e andava via come niente fosse.
La dolce Karin ripeté ancora a Yara di lasciar stare i fiori. L’architetto spione non si vedeva né sentiva, ma doveva essere già lì appostato da qualche parte a spiare e a scoreggiarsi addosso. Karin disse ancora qualcosa alla sua bimba di un anno e pochi mesi. Sempre dolce, la mia vicina preferita. Poi le disse che Marlon e Mathias non avrebbero aspettato. Marlon e Mathias sono i miei nipotini. La portava a giocare dai miei nipotini. Dall’altra parte dell’isolato. Io ultimamente ero più o meno innamorato di questa Karin. Mi innamoro sempre di quelle già felicemente sposate. Così non ci sono pericoli né sofferenze né rotture di cazzo. Non si può fare punto e basta. Sono un pigro e un codardo. E mi piace starmene sul dondolo a leggere. Al massimo lavorarmi una tortilla e una lattina di birra mentre leggo. Ma più che altro leggere. Persone ammesse al mio cospetto mentre leggo: uccellini, grilli, la mia gatta Ciopy. Ammetterei volentieri anche la dolce Karin. Magari solo per coccolarmi e riscaldarmi un po’ in giornate come oggi quando il sole non è di ruolo, e con la felpa fa freschino. Ma è felicemente sposata con uno che vende barche di lusso in Florida. Ne vende tante e fa un mucchio di soldi. Non posso competere. E poi l’ha sposata prima lui e tutte quelle balle lì.
Ad ogni modo, avrei quasi voluto darle una voce. Salutare lei e la sua piccola bionda Yara mentre passavano dietro la siepe senza vedermi. Passavano in strada dopo aver svoltato fuori dal viottolo. Ma rinunciai. Sul dondolo infrattato tra gli alberelli mi mimetizzo molto bene. Persino l’architetto fa fatica a controllarmi, quando sto lì. Inutile rivelare d’improvviso la mia presenza a chi non se l’aspetta. Avrei potuto spaventarle. O passare io per spione infrattato. Magari a spararsi una sega mentre spia la dolce Karin in pantaloncini corti. Poi sentii una cosa. Sentii la dolce Karin che chiamava sua figlia Pulce, e pensai, anche mia mamma da piccolo mi chiamava così. Mia mamma che ora non c’era più. E mi intenerii. Mi intenerii tantissimo. Però qualcosa non tornava. Diceva Pulce vai via. Pulce vai a casa. Faceva dei versi per cacciare indietro questa Pulce. Quindi non poteva essere Yara. Con le deduzioni devi lasciarmi stare perché sono una specie di genio, io. Doveva essere il loro gattino nero. Mica lo sapevo che si chiamava Pulce. Comunque era di certo il loro gattino. Il gattino voleva seguirle per strada e la strada era pericolosa. E la dolce Karin lo ricacciava indietro. Poi sentii che lei e la bambina se ne andavano, e il gattino doveva essere rimasto lì, perplesso, a metà via, nel vialetto che gli Hayworth hanno in comune con l’architetto. Perché l’architetto è un tizio in pensione che ha acquistato la vecchia fattoria di una mia zia che ora vive in Canada. Ma aveva fatto male i conti. Non ci riusciva, lo spione, a pagare le rate della fattoria e nello stesso tempo starci dietro a comprare tutti quei motori sempre più rumorosi per i vari tagliaerbe del cazzo. E a un dato momento aveva dovuto dividere in due la fattoria, e l’altra metà l’aveva venduta a degli imbecilli, che poi per fortuna l’avevano rivenduta a questi Hayworth. Che sono tipi simpatici che hanno un po’ deimbecillizzato la zona.
Inutile farla lunga. Dal dondolo vidi spuntare nel vialetto lo spione segaerba. Aveva sentito cacciare indietro Pulce ed era venuto a vedere. A un tratto mi venne da pensare che avrebbe potuto approfittarsene per uccidere a calci il gattino. Non c’era un motivo vero per pensarlo. Ma io sono un tipo intuitivo e spesso ho di queste intuizioni, perché non costano fatica e puoi averle anche se sei un pigro e un codardo, che se ne sta sul dondolo a leggere Bukowski.
L’architetto si sporse dal pilastro in fondo al vialetto per controllare Karin e Yara che andavano via. L’avevo lì a cinque metri. Ma non si accorse di me. Stavolta ero in vantaggio io, sul maledetto spione. Lo stronzo che un anno prima si era goduto l’agonia di mio padre malato di cancro nascondendosi fra i cespugli e dietro il ciliegio vicino alla palizzata. Cristo sui pattini a rotelle era il racconto più divertente che avessi mai letto, almeno la prima parte, ma il momento era cruciale. Me lo sentivo. Chiusi il libro e stetti in ascolto. Il presentimento era giusto. Non mi ero sbagliato. Sentii un tonfo. Sentii un suono come di orsacchiotto di peluche che viene schiacciato con violenza. Sentii un altro tonfo più forte del primo. E gemiti e rantoli soffocati. Rantoli umani. Non proprio umanissimi, diciamo. Doveva essere l’architetto. Uscii dal mio cancello, girai l’angolo e vidi. A metà vialetto c’era il micino agonizzante. Rovesciato sulla schiena, dimenava le zampine. Sofferente ma vivo. Vicino a lui c’era a terra il suo aggressore. Il terzo colpo, avrei scommesso. Gemeva e rantolava. Sofferente ma vivo. Credo chiedesse aiuto. In mezzo a tutti quei ciuffi di peli di cazzo verdi di suo nonno. Allora presi il gattino, lo sollevai con cura e con tutto l’amore possibile, corsi via con Pulce tra le mani, saltai in macchina, e lo portai di gran carriera all’assistenza veterinaria.
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