Sofia si veste sempre di nero (minimum fax) è una raccolta di racconti compatta e organica, che (presumibilmente per fini commerciali) è stata anche definita “romanzo”, così come i due splendidi racconti di Tonon che compongono Il nemico (Isbn) sono diventati un “romanzo eretico”. Forse, tuttavia, non è solo il marketing a dettare queste distorte nomenclature (come è noto, i romanzi vendono di più), ma anche l’erronea supposizione per cui una raccolta di racconti sia una semplice successione di brani; così non è, o non dovrebbe essere (come ho già ribadito più volte nel corso di questa rubrica), e prima di Paolo Cognetti, lo hanno suggerito Amos Oz con Tra amici e nel lontano ’62 Maria Corti con L’ora di tutti, giusto per fare due esempi che meriterebbero più attenzione e riscontri. Ma il modello di Cognetti potrebbe essere stato In fuga di Alice Munro, in cui per tre racconti in successione torna la medesima protagonista, Juliet, prima ragazza, poi sposa, infine vedova e madre.
Sofia si veste sempre di nero si compone di dieci racconti, attraverso i quali Cognetti, con il suo stile delicato e minimalista, traccia la storia dell’inquieta giovinezza di Sofia e delle esistenze delle persone che gravitano intorno a lei: il padre Roberto, ingegnere e uomo semplice; la madre Rossana, umorale e irascibile; la zia Marta, con un passato nell’estrema sinistra; ma il percorso di Sofia si interseca anche con quello di personaggi marginali, come l’infermiera che assiste alla sua nascita, il piccolo “filibustiere” Oscar o l’aspirante scrittore (e voce narrante) Pietro. Proprio quest’ultimo ci indica una delle chiavi di lettura dell’opera, ossia il rigetto di una dimensione famigliare vibrante di tensioni e ipocrisie: «tutti noi, di disastroso, avevamo avuto le famiglie, normali famiglie composte da un uomo una donna e un bambino». Ma non è che un epifenomeno della cesura tra le generazioni precedenti e quelle successive agli anni ’70; Sofia è una punk figlia del suo tempo, privo di ideali e di avvenire, e così si rivolge alla zia: «tu sei comunista dentro. Voi siete come i cattolici, vi fate un culo così perché credete nel futuro. Io voglio essere felice adesso». Voler essere felici adesso significa, però, doverlo essere in ogni istante, e dunque mai; ecco perché Sofia tenta il suicidio e la sua vita sembrerebbe votata al lutto, eppure è attraversata da improvvisi squarci di luce. Come l’inatteso manifestarsi della vocazione di attrice: «pensò che, se avesse potuto tornare indietro, le sarebbe piaciuto diventare un’attrice. Sarebbe stato un modo appassionante per non essere più se stessa» o forse per non rischiare di essere il riflesso di sua madre, come più volte ammette di temere. Se Rossana, tuttavia, non riuscirà a staccarsi dalle sue aspirazioni né a realizzarle, Sofia saprà mettersi in gioco trasferendosi prima a Milano, presso la zia, dove apprenderà i rudimenti della recitazione; poi a Roma, dove frequenterà una scuola di cinema e condividerà un appartamento con due colleghe, la bella Irene e la materna Caterina; infine a New York, dove conoscerà un aspirante regista, Juri, e il suo amico Pietro che deciderà di raccontarcene la storia. Ed è lui a rassicurarci che Sofia la sua strategia di sopravvivenza l’ha infine trovata: «davanti all’obiettivo Sofia tornava la cameriera in riva al fiume: si muoveva lì dentro come se quella fosse la vita, e il resto un’imitazione».
L’ordito che ne emerge è allora evidentemente il risultato di una premeditata ideazione, sebbene tutti i testi abbiano una certa autonomia e specifiche peculiarità: dalla brevità del primo racconto (appena tre pagine), all’uso della seconda persona in Quando l’anarchia verrà e della prima in quello conclusivo, Brooklyn Sailor Blues – forse il più suggestivo e compiuto insieme a Una storia di pirati, sull’infanzia e sulla fine delle illusioni.
Non resta che augurarci che Sofia si veste sempre di nero, dopo essere stato selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega 2013, possa accedere alla cinquina tra cui viene scelto il vincitore, sebbene le logiche sottese alla fase finale del premio siano ben note e ben poco letterarie.
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