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Raccontare il dolore

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Lunedì 5 novembre 2012

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (3): Raccontare il dolore

Una duplice difficoltà accompagna da sempre il bisogno di raccontare l’esperienza che vivo nel Centro di ascolto: la disciplina severa della riservatezza, che impone di non favorire l’individuazione delle persone che lo frequentano; la natura dei discorsi che si fanno nei colloqui di motivazione e negli incontri di gruppo.
Se è facile comprendere la prima difficoltà, più arduo è render conto della seconda. Nel Colloquio di motivazione, ciò che si fa colloquio è sempre una materia non riconducibile semplicemente al contenuto tematico, alle cose dette. Di queste è relativamente facile render conto: basterebbe annotare volta per volta le questioni affrontate. Le stesse cose, tuttavia, cessano di essere facile oggetto di discorso quando se ne consideri la valenza che assumono ogni volta che vengono affrontate dalle persone con il loro linguaggio, con le connotazioni che le parole assumono nelle situazioni proprie della vita della persona.
Restituire il contenuto di un colloquio è operazione che richiederebbe un resoconto fedele di ogni ‘passaggio’, di ogni ‘battuta’, ma la fedeltà invocata sarebbe tale solo se il dialogato fosse registrato per intero e trascritto parola per parola. Anche questo, però, non basterebbe. Un ascoltatore curioso pretenderebbe un supplemento di informazione. Vorrebbe sapere tutto del nostro interlocutore, dalla foggia dei vestiti al modo di gesticolare, alle espressioni del viso. Alla fine, non si accontenterebbe nemmeno delle nostre risposte, perché noi cadremmo ad ogni piè sospinto in interpretazioni infinite, per spiegare al meglio ciò che appare sempre carico di senso. L’ultimo ‘ostacolo’, quello che li riassume tutti, è questo: come restituire l’atmosfera sospesa, l’indecisione, l’esitazione, le pause dell’anima sugli indecidibili, la nostra stessa perplessità su quello che sta effettivamente accadendo? Quale peso dare ogni volta all’ansia che accompagna noi, all’avvio di ogni colloquio, ché temiamo, magari, di non riuscire a portare il nostro interlocutore da nessuna parte e che, per questo, trasmettiamo forse all’altro la nostra ansia, che si tradurrà in impazienza e fretta, in anticipazioni non autorizzate, in conclusioni affrettate…? Come rendere conto di quel genere di colloquio che parte sempre con una nostra difficoltà, perché convinti di non godere delle simpatie di quel ragazzo che proprio oggi è stato affidato a noi? Saremo testimoni attendibili, considerato che ogni più piccolo ‘risultato’ ci apparirà significativo, alla luce della nostra difficoltà di partenza? D’altra parte, tutte le volte che ci sembrerà di stare al sicuro, di poter condurre i colloqui agevolmente, siamo certi che non ci sfuggirà qualcosa di essenziale, proprio perché guideremo la conversazione verso mete sicure? E’ certo che dall’altra parte non ci saranno momenti in cui, magari, si tenderà a darci qualche certezza non ben fondata, per farci contenti?
Finiamo, così, per dare valore al dettaglio, alla sfumatura, alla piega imprevista che prendono le cose. Seguiremo il significante, gli slittamenti del senso, per essere certi che sia l’altro con i suoi moti spontanei a ‘guidarci’.

Abbiamo sempre preferito non prendere appunti durante i colloqui, per non interferire con la sua natura di ‘parlato-parlato’. I linguisti chiamano così il parlare ‘faccia a faccia’ senza un tema prestabilito, per distinguerlo da altre forme di parlato, come il ‘parlato-scritto’, che contraddistingue la lettura televisiva o un discorso che sia accompagnato dalla consultazione di appunti… Il nostro interlocutore, poi, potrebbe essere indotto a prendere altre strade, se distratto da una comunicazione asimmetrica, ché tale rischia di apparirgli un modo di interloquire non sostenuto dalla stessa spontaneità che ci mette lui. Del ricco ‘materiale’ di cui facciamo esperienza e di cui non veniamo mai veramente in possesso tutto va perduto, o quasi. Dobbiamo fondare sulla nostra memoria viva, per proseguire con efficacia il lavoro avviato con una persona e con la sua famiglia.

Un esempio forte può esser dato da un incontro drammatico avvenuto tempo fa tra un ragazzo e la sua fidanzata. Uscito dalla Comunità il giorno prima, è stato invitato a colloquio con la madre e la fidanzata. Quest’ultima era accompagnata da un’amica, tra l’altro, sorella di uno dei nostri ragazzi, residente in Comunità da più di un anno. L’ideale sarebbe stato fare a meno della presenza della madre del ragazzo, sempre disordinata e scomposta nei suoi interventi, a causa della sua ansia invincibile, e della presenza dell’amica della fidanzata del ragazzo, che sembrava dovesse fungere da sostegno a una persona che piangeva ad ogni passo del colloquio. Queste due presenze, tuttavia,  interferirono positivamente sull’andamento del colloquio: la prima, perché seguì la mia conduzione del colloquio, paga dei risultati che ottenevo ad ogni mossa della ragione; la seconda, perché non fece avvertire in nessun momento la sua presenza, rimase immobile e inespressiva, prese la parola solo alla fine, per dare testimonianza delle difficoltà che suo fratello incontrava a far ripartire la sua vita dopo tanti sacrifici. Il fidanzato della sua amica cosa poteva sperare di aver ottenuto dopo un mese di Comunità?
Nel corso di un’ora o poco più, la fidanzata ha confessato la sua ingenuità, perché molte persone intorno a lei l’avevano messa in guardia sui comportamenti di lui. Lei aveva sempre confermato la sua fiducia a lui: non voleva conoscere il suo passato! credeva alle sue parole di oggi! l’avrebbe aiuto a risollevarsi, bastava che si affidasse a lei, senza mentirle mai! A testimonianza della sua buona fede, lei ricordava come avesse fatto di tutto perché lui non uscisse dalla Comunità: era difficile per lei aspettare, tanto che non aveva fatto altro che piangere; adesso cosa avrebbe dovuto fare con lui? la situazione era anche peggiore.
Il colloquio a più voci aveva toccato le questioni della sincerità nei rapporti di coppia, la mancanza in lui di risorse da portare ‘in dote’ nella relazione sentimentale, il tempo lungo che si richiedeva perché egli tornasse a una vita normale, il dubbio legittimo che fosse difficile per lui farcela da solo, lontano da un programma residenziale…
Gli argomenti da me portati ‘a difesa’ della ragazza, perché non sembrasse che eravamo preoccupati di tutelare solo lui, venivano accolti di buon grado da lui, che si faceva sempre più arrendevole, più ‘sottomesso’ a lei.
Mentre lei parlava e piangeva, lui non faceva che annuire, ammetteva errori, colpe, responsabilità…
Insomma, in base alla nostra esperienza, era la prima volta che una ragazza si mostrasse subito consapevole dell’errore commesso, nonostante dichiarasse, nello stesso tempo, di essere perdutamente innamorata di lui. Questo sembrava ‘semplificare’ le cose, perché non restava che prendere atto delle parole di lei, che indicava a lui la sola via di un rientro in Comunità,
 mentre dichiarava piangendo che non avrebbe mai potuto aspettarlo per tanti anni – 2, 3, 4 anni?
Eppure, la rapidità con cui si era lasciato convincere dai miei argomenti e da quelli di lei ci aveva lasciato un dubbio e un sospetto sulle sue reali intenzioni: si diceva pronto a rientrare in Comunità, ma ripartiva con la ‘contrattazione’ sulla sede da raggiungere…
Nel tempo di quel colloquio, molte cose furono dette sulle quali sarebbe lungo riferire ora. La ‘trasformazione’ subita dal ragazzo che era venuto ostinato e bellicoso, assieme alla decisione di lei di interrompere il rapporto con lui, ci sembrarono troppo rapide e convinte. E se avessero acconsentito a un ‘orientamento’ delle cose in una direzione che non lasciava a nessuno dei due altra scelta, per uscire da un imbarazzo che era palpabile in entrambi? Evidentemente, si vergognavano entrambi, per opposte ragioni, delle scelte fatte! Ma cosa sarebbe accaduto nei giorni successivi? Si sarebbero incontrati ancora, nonostante la fermezza delle decisioni prese dall’uno e dall’altra? Il SER.T. avrebbe accettato una nuova partenza di lui? Sarebbe riuscito a convincere gli Operatori del SER.T. della bontà delle sue intenzioni? Il Giudice gli avrebbe concesso un’altra possibilità, pur in presenza di una violazione delle prescrizioni?

Queste e altre domande ancora ci accompagnarono durante un colloquio teso ma lucido. Eravamo arrivati a quel punto di chiarezza dopo tante bugie e sotterfugi, ma sarebbe stata vera chiarezza? Da parte di lui ci sarebbe stata autentica resipiscenza? Il colloquio era stato veramente efficace? A me sembrava di sì.
Restituire il senso di tutto quello che accadde quel giorno potrebbe essere utile qui, al di fuori di un resoconto degli anni trascorsi con il ragazzo e con la sua famiglia? I quattro tentativi precedenti di fuoriuscita dalla dipendenza non richiederebbero di essere riferiti? Le lunghe vicissitudini familiari e personali del ragazzo possono essere omesse, per render conto di un solo colloquio? E quand’anche ci dedicassimo alla ricostruzione di questa storia, dovremmo poi procedere allo stesso modo con tutte le altre storie? E tutto ciò che costituisce residuo di non detto – le discussioni tra Operatori, per decidere l’orientamento più giusto, per fissare la condotta da seguire caso per caso, le reazioni delle famiglie, le ripercussioni negli incontri di gruppo… – dovrebbe entrare in una ‘storia’ degna di questo nome? Fin dove è lecito riferire, pur in presenza di un anonimato garantito dall’assenza di chiari riferimenti alle persone e ai tempi dell’intervento? E cosa dire dell’esito dei singoli casi? Quale giudizio dare della ‘conclusione’ dei singoli programmi? In assenza di follow-up, cosa dire dei tanti ragazzi che sono andati via, avendo concluso il programma residenziale, e dei tanti che non lo hanno concluso e pure ‘stanno bene’?

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UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (0): Sempre in ascolto

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (1): Accanto al dolore

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (2): Una Casa che sia anche Comunità di destino

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