In occasione della settima edizione del Festival della Letteratura di Viaggio, in programma a Roma dal 25 al 28 settembre, proponiamo un breve estratto di Cina e altri orienti di Giorgio Manganelli (Adelphi, 2013).
«L’uomo è un animale viaggiante; mi pare che codesta peculiarità sia più bizzarramente significativa, più specifica di molte altre, raramente nobili, qualità che l’animale uomo è in grado di sfoggiare…Vi sono uomini che viaggiano poco, o di rado, e per brevi tratti; altri che viaggiano ininterrottamente, anche solo per offrire dentifrici e raccontare storielle di provincia; molti viaggiano in enormi comitive, con cestini e bottiglie e bare e sporcano il mondo con cartacce unte e diamanti perduti. Altri amano il viaggio lungo, solitario, in luoghi improbabili, tra gente che parla lingue ignote e mangia cibi inquietanti. Ma viaggiare si deve, si vuole. È da supporre che viaggiare risponda ad un impulso oscuro e magico dell’uomo, qualcosa che egli non sa contrastare…
Nessuno di noi è Ulisse, e neppure Sinibad, che non temette il volo dello sterminato uccello Rok, o Marco Polo, che attraversò le tenebre magiche dell’Asia, imparò il tartaro, e governò le idolatre e mirabili terre della Cina. Ma non crediamo al monito del Tao Te King, che voleva l’uomo felice e pacifico nel suo villaggio…Potremmo supporre che il viaggiatore sia un uomo né felice né pacifico; ma afflitto da una infelicità incanaglita, trista, che lo fa gregario rumoroso, o solitario vagabondo. Oggetti inconsueti muovono in noi subitanei sussulti di vita, e i luoghi ignoti tendono i nostri nervi; ammiriamo ruderi, ci mescoliamo alla folla rumorosa di bazar esotici, assistiamo ai riti di religioni che conoscevamo solo sui libri; mangiamo cibi che il nostro palato esplora con curiosità.In due, tre settimane, speriamo di incontrare i nostri Lestrigoni, le Circi, attraversare nebbie magate, e solcare mari immalinconiti dal canto irresistibile e inutile delle Sirene. Esiste un’Itaca? Misuriamo insieme la profondità della nostra solitudine e l’altezza della nostra speranza. Vorremmo in pochi giorni quello che Ulisse conseguì in dieci anni di navigazione ostinata: diventare Nessuno».
CINA
«Se qualcuno ha in mente una città taciturna e spaziosa, amplissima, popolosa e tuttavia quasi dovunque radamente abitata, nella quale le voci umane si perdono, costui certamente immagina Pechino; se qualcuno si figura una città geometrica, astratta, un quadrato attorno ad un quadrato con viali predisposti come itinerari per il vento, un vento severo e senza volto; una città di angoli retti, rare curve, una piazza di arcaica grandezza; percorsi che si fingono, per la coerenza delle linee, assai più lunghi di quanto non siano; una città appena sollevata sul suolo, da sembrare disegnata, un plastico, una coincidenza di città e mappa; costui, non v’è dubbio, sta sognando Pechino; se poi qualcuno scorge una città insieme proletaria e imperiale, umile e crimoniale, tale da accogliere i recenti riti degli Uguali e i segni degli antichi riti degli imperatori, ed anche oscuramente farli toccare, costui può trovarsi solo a Pechino. Roma è plebea e nobilesca, Parigi sa di alta borghesia e popolo folcloristico e rissoso, Londra è malinconica e impiegatizia. Ma Pechino non pare aver conosciuto condizioni intermedie tra quella imperiale, protrattasi per secoli, e questa di oggi, degli uomini vestiti di blu».
Pechino (Jason Lee, Reuters/Contrasto)