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Raccontare il Salento con uno stemma: il “Sallentum” di Giuseppe Ferraro.

Creato il 27 luglio 2010 da Cultura Salentina

 

Stemma

Sallentum, (G. Ferraro, 2010)

 

Giuseppe Ferraro è un provetto pittore e decoratore di Acquarica del Capo il cui pennello è la trasmutazione della sua stessa bocca intenta a parlarci del Salento. Un Salento raccontato per immagini senza la presunzione di possedere un personale stile artistico perché lui non vuole impressionare o erigersi ad artista ma solamente dipingere il Salento con semplicità e vivacità di colore.

Vuole così esprimere il calore generoso degli uomini di questa terra e del suo sole che costantemente ravviva e scandisce i ritmi di una favolosa natura. In tutte le sue produzioni troviamo spessissimo pajare, pennule di pomodori, fichi e limoni, tamburelli con la taranta, e persino imbrici e chianche di pietra leccese. Non rari i manufatti in argilla e piani di legno che diventano il posto ideale sul quale dipingere al posto dell’usuale tela. 

Ogni cosa, insomma, può diventare uno spazio per fissare le immagini del suo Salento. Al fianco di questo suo modo “anarchico” di vivere l’arte, egli nutre una grande passione per la storia degli ordini cavallereschi. Il mondo del cavaliere è fissato sul valore e il coraggio, sull’onore e la fedeltà come in quel mondo del Carabiniere al quale egli stesso appartiene. Saranno questi, probabilmente, gli ascendenti della sua inclinazione per l’arte araldica ed è ben noto che quando il sentimento e la passione diventano per l’anima devastanti allora l’artista si rivela dannatamente capace.  

Giuseppe Ferraro, in una delle sue tante “sperimentazioni”, ha pensato di esprimere l’amore per il suo Salento e l’Araldica in un’immagine capace di impattare sull’osservatore sia in termini di bellezza che di comunicazione culturale.  Rappresentare il Salento in un’immagine che in un sol colpo riassuma l’articolato sfondo culturale di questa terra è però arduo. Sarebbe molto più semplice pensare al mare, alle assolate campagne o a tutte quelle immagini che nascono pensando, ad esempio, a quel famoso slogan “Salentu: Sule, mare e jentu”. L’artista acquarichese è invece riuscito a metterci storia, religione, folklore, ambiente ecc. utilizzando l’immagine araldica che da secoli è il simbolo dell’onore e della nobiltà: lo scudo. Si tratta di un cartoncino ricco di “simbolismo” che spesso supera le regole tradizionali della composizione araldica. Ciò è voluto perché anche nel suo “Sallentum”, così si chiama l’opera, l’artista ripropone la sua visione artistica che rifiuta regole strette, schemi fissi e stili per trasmettere fedelmente e senza interferenze il suo sentimento travolgente e franco. Oserei dire che la sua arte è bella come la forza distruttrice di un uragano e di un tramonto sul mare ma mi piace anche dire che la sua è arte e pura salentinità, quella stessa salentinità che il dott. Paolo Pagliaro presidente del gruppo Mixer Media definisce, «un sentimento, una condizione psicologica, un privilegiato rapporto d’amore nei confronti del Salento da parte di chi, in questo territorio, riconosce la propria piccola grande patria».

Un araldista vedrebbe in quest’arma semplicemente uno scudo che grossomodo blasonerebbe:

Partito. Nel primo d’oro al ragno di nero montante, nel secondo di rosso al geco d’oro montante. Il tutto sotto un capo a nove verghe di giallo e di rosso. – Elmo messapico con svolazzi di giallo e di rosso.

Chi soffre di salentinità, invece, noterà che colori e elementi araldici sono le frasi di un racconto in cui il protagonista è sempre l’antica terra di Messapia proprio a significare la storicità di questa penisola attraverso uno dei suoi primi popoli. La scelta dell’elmo è quindi un chiaro riferimento non solo ai fieri cavalieri messapici  ma principalmente il rimando ad un’antichità che rende orgoglioso e ricco di storia un popolo. Accanto all’orgoglio e al vanto della sua storia, Giuseppe Ferraro pone gli svolazzi con foglie d’acanto e non solo per forzare cronologicamente un elemento araldico, che si attesta solo nel XVI sec., quanto invece a sottolineare la nobiltà di questo popolo antico che ancor oggi scorre nelle vene del salentino. Una nobiltà che non è di lignaggio ma di valore, quello stesso valore che un cavaliere medievale doveva esprimere per fregiarsi di gloria e per coprirsi d’onore in battaglia. Allora si rivede nell’opera del Ferraro il messapo valoroso che diffida e sfida il mondo romano o che combatte al fianco di Atene nell’assedio di Siracusa. Le partizioni dello scudo giallo-rosse sono certamente un rimando alla sua terra leccese ma quando il Salento era già più vasto dell’attuale provincia di Lecce sotto questi colori si identificò tutta la Terra d’Otranto.

Con questa scelta di colori, allora, l’artista ci trasmette un’altra notizia storica importante riportandoci all’anno 1481 quando Alfonso d’Aragona sconfisse e scacciò da tutta Terra d’Otranto le orde saracene.  Ben si conosce la storia dell’eccidio di Otranto del 1480 e ben si conosce quanto incisero le incursioni saracene sul territorio salentino e sulla sua popolazione. La liberazione di un tal male fu una “manna” per il Salento e la popolazione volendo dimostrare la grande impresa della casa aragonese aggiunse all’antico delfino, che ancor ora si vede nello stemma della provincia di Lecce, i colori del re: quattro pali vermigli in campo d’oro. L’episodio storico che con il capo dello scudo e i due colori l’artista ci comunica non si sottrae da un forte simbolismo che, in araldica, gli smalti generalmente sottintendono. Il rosso è il colore del fuoco, del rubino e simboleggia amore di Dio e del prossimo. Verecondia, spargimento di sangue in guerra, audacia, valore, fortezza, magnanimità, generosità. E’ anche ricordo dell’Oriente e delle spedizioni d’oltremare. Dagli antichi questo colore era dedicato a Marte e perciò significa slanci d’animo intrepido, grandioso e forte.

Gli spagnoli chiamano il campo rosso sangriento ossia sanguinoso, perché richiama alla memoria le battaglie sostenute contro i Mori. Nelle bandiere il rosso rappresenta l’ardire e il valore, e pare sia stato adottato in principio dagli adoratori del fuoco. Lo stesso fuoco che ancora nel Salento è venerato in forma di culto cristiano passato attraverso l’opera taumaturgica dei santi orientali; un esempio su tutti sono le focare di Sant’Antonio Abate. Il giallo è simbolo di orgoglio ma anche di desiderio amoroso nonché gelosia e per questo il Ferraro infonde in questo smalto l’orgoglio di una salentinità che diventa passione e amore tanto da sfociare nella gelosia quando qualcuno vede nelle lande salentine solo l’opportunità di uno sfruttamento territoriale finalizzato al selvaggio business.

Ma il giallo diventa ancora una volta trasmettitore di storia: non erano forse gialli gli stendardi del Saladino? Quante volte i cavallari, dall’alto delle torri costiere, avevano visto quel colore sotto il quale orde di “infedeli” avevano calpestato la nostra terra per trucidare, rapinare, sequestrare e sventrare intere città e popolazioni locali? Il ricordo delle incursioni musulmane rimane nel Ferraro il punto fisso del suo pensare al Salento in chiave storica e in queste battaglie rivede quel cavaliere che difende i porti e le contrade interne quasi a ricordarci ancora una volta i valori del coraggio, della fedeltà e del sacrificio. Rimanda, dunque, all’ispirazione originaria della sua stessa opera: mondo cavalleresco e nobiltà della sua terra bagnata da sangue valoroso.

La scelta degli animali sovrapposti agli smalti in posizione montante riportano alla concezione di un Salento magico e folklorico capace ancora, a distanza di secoli, di affascinare le genti d’Italia. Se il ragno lo si può immediatamente rapportare alla tradizione delle “tarantate” e al complesso sincretismo di un universo cristianizzato ma ancor influenzato, sino all’alba del XX sec., da latenti superstizioni pagane, non è da dimenticare che lo stesso animale è, in araldica, simbolo dell’assiduità industriosa per la quale si giunge a sublimi cariche. Si avverte, dunque, nella scelta del ragno la volontà dell’artista di riportarci ancora al valore della terra, la terra rossa per intenderci, alla quale il contadino affidava il suo sacrificio lavorativo nella speranza di un buon raccolto che lo avrebbe innanzitutto sfamato e poi forse arricchito. Nella fecondità della terra, dunque, la speranza dell’ascesa dallo stato di sciurnatiere a quello padronale, sogno di tutti i poveri del tempo, che solo con l’impegno, la solerzia e il sacrificio dosato con un po’ di superstiziosa fortuna avrebbero realizzato.

Ecco quindi che il vero messaggio dell’artista attraverso il ragno è quello di ricordare come il riscatto sociale sia possibile attraverso il sacrificio e l’operosità alla quale, la tradizione ricorda, si assocerà l’elemento magico-superstizioso della fortuna. Un credere che è popolare, antico e tipicamente salentino così come magnificamente lo descrisse Giulietta Livraghi-Zain nel suo “Tre Santi e una campagna”.  L’altro animale preso in considerazione dal Ferraro per esprimere un carattere di salentinità è il geco. In prima battuta il geco non si è mai osservato negli stemmi mentre più frequenti sono le lucertole e i ramarri. Tuttavia, pensando al ramarro che è simbolo di affezione, benevolenza e di fedele custodia è facile proiettare questi valori simbolici sullo stesso geco. Esso è un animale conosciuto nel Salento per le sue qualità di casaluru, ossia legato a uno specifico luogo nel quale ricompare anno per anno e a volte anche con i suoi piccoli.

Proprio per questo motivo lo si può definire un custode, pur essendo odiato dalla maggior parte degli abitanti di questa terra per la sua bruttezza, nonché un difensore della salute umana essendo ghiotto di insetti come le fastidiosissime zanzare. Il messaggio dell’artista allora appare chiaro; il geco è un animale tipico delle case salentine che assurge a custode di una cosa cara, gelosamente ottenuta e con sacrificio mantenuta. Ritorna, dunque, nel pensiero dell’artista la ferma volontà di custodire e mantenere viva la sua terra rivalutandola nella sua dimensione culturale e attraverso i suoi stessi custodi che sono poi gli stessi uomini di questo suo Salento.

L’opera è in conclusione un crescendo di emozioni che spaziano dalla tradizione alla storia, dall’uomo all’amore per la sua terra, insinuando nell’animo di chi la osserva la magnificenza di questo Salento che silenziosamente cresce e illumina le coscienze patrie di ognuno.

 


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