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Raccontare storie - Terza Parte: la prima versione

Creato il 21 aprile 2012 da Faustotazzi
I cessi del Raffles
Raccontare storie - Terza Parte: la prima versione
Il Raffles a Dubai è un hotel di lusso a forma di piramide di diciannove piani. Un po’ Giza e un po’ Las Vegas, più Nevada che Egitto a dire il vero. Gli interni sono meravigliosamente sfarzosi e non mi stancherei mai di stare a guardare la fontana a fili della lobby: i giochi d’acqua mi ipnotizzano. Duecentoquarantotto camere e suites, un numero imprecisato di ristoranti, uno dei migliori centri benessere dell’intero Medio Oriente - e da queste parti di terme e bagni turchi se ne intendono - un ettaro di giardino botanico e l’immancabile enorme shopping mall semideserto. Appena inaugurato venne subito nominato miglior nuovo hotel del Medio Oriente, è nella lista dei migliori 136 hotel del mondo e anche in quella dei migliori 65 posti dove stare sul pianeta. 
Nei cessi del Raffles ci sta un pakistano con una pezza in mano. Sta li, di fianco al lavandino, inganna il tempo passandoti le salviette profumate ma in realtà il suo lavoro è un altro: il pakistano di professione aspetta che l’avventore esca dal cesso e lo ripulisce subito per bene, in modo che il prossimo cliente lo trovi sempre come nuovo. Una vita di merda, ma tutto sommato meglio che niente.
Vengono qui a fare gli gli operai, i magazzinieri, gli spazzini o al massimo i tassisti. Raramente capita di incontrarli in professioni migliori, di solito sono riservate agli asiatici del sud-est che sono etnìe più gradevoli e carattari più malleabili. Ma Mehdi Hassan è qui; non so come ci sia capitato, probabilmente è passato per diversi lavori prima di reincarnarsi nell'ambito ruolo di uomo delle pulizie dei cessi del Raffles che - come abbiamo già detto - è pur sempre meglio di niente, meglio che smantellare navi nel cantiere di Gaddani, ad esempio.
Gaddani in relatà non è nemmeno un cantiere vero e proprio, non me la sento di definire "cantiere navale"  una decina di chilometri di spiaggia non attrezzata nel Pakistan meridionale, poco lontano da Karachi, dove vecchie navi vengono tirate in secca e fatte a pezzi da una massa di poveracci che ci si avventano sopra come le formiche sugli avanzi di un pranzo. Gaddani sta giusto dall'altra parte del amre, a qualche centinaio di miglia dal paradiso degli Emirati Arabi; e cosa volete che siano un centinaio di miglia su un battello per uomini che si giocano la vita facendo a pezzi grandi navi? Per Hassan non deve essere stato poi così difficile trovare una lancia - magari tenuta assieme dai pezzi recuperati da qualche scialuppa di una petroliera - che attraversasse lo stretto di Hormuz in una notte senza luna e sbarcasse sulle remote spiaggie abbandonate di Musandam, di Fujeirah o di qualche altro paese senza nome nell'Oman settentionale. In una di quelle notti tanto umide e calde in cui nessuno si avventura fuori di casa Hassan ha marciato, attraversato quelle montagne fatte solo di sassi e terre secche, insieme a un gruppetto di sconosciuti compagni di avventura che alla vista delle luci di Dibba dall'alto nelle ore prima dell'alba, si sono cambiati i vestiti, sono scesi e hanno riempito gli stomaci elemosinando una colazione in qualche bar gestito da indiani giù nel paese.
Quelli del Raffles non sono bagni: sono ricchi saloni enormi di marmi, legni pregiati, fontane e dorature con grandi vasi e compozizioni di fiori recisi di fresco che li decorano e li profumano. Forse per questo  gli avventori amano intrattenersi nei cessi anche più del dovuto? Oppure sarà qualche altra ragione più prosaica sta di fatto che oggi i cessi del Raffles sono tutti occupati e io mi ritrovo qui fuori, con Hassan, ad aspettare.
A Gaddani arrivavano tutte le navi del mondo: petroliere Americane, cargo Cinesi, baleniere Giapponesi, traghetti Inglesi che avevano attraversato le onde della Manica in tempesta, vecchie navi da crociera Italiane che erano andate a incagliarsi chissà dove. Su quella spiaggia tutte venivano fatte a pezzi a mani nude da un esercito di formiche senza protezione. Smontando navi sulla spiaggia di Gaddani si guadagnavano 4 dollari al giorno e ci si giocava la vita lavorando senza casco e senza guanti - senza nemmeno acqua potabile - tra pesanti blocchi d'acciaio che cadevano, cavi che si spezzavano e materiali tossici che uccidono lentamente, giorno dopo giorno. Gaddani era un inferno dove pareva che tutti i poveri del mondo venissero a trovare la morte in cambio della speranza di sopravvivere.
Hassan mi racconta che una notte suo fratello Mahdi stava lavorando duro, appeso a una fune dentro lo scafo di una vecchia petroliera, quando improvvisamente perse l'equilibrio, scivolò e cadde. Giù nel buio della chiglia con le ossa rotte e incapace di muoversi quella notte Mehdi morì soffocato dai fumi tossici. La mattina dopo tagliarono una larga sezione di acciaio dalla nave e quando questa cadde in mare e la luce entrò nella stiva il corpo di Mahdi era là, il volto gonfio, tra il violaceo e il verde. A Gaddani non c'è acqua potabile e la corrente elettrica va e viene. Nessuna multinazionale si sognerebbe di venirci a investire. I Pakistani fanno quello che possono, provano a procurarsi materiali migliori ma nessuno si sognerebbe nemmeno lontanamente di imporre alcun obbligo a queste aziende che riescono a impiegare migliaia di persone e a produrre ricchezza per il Paese. Una volta le navi venivano smantellate negli stessi cantieri che le avevano viste nascere, poi i costi del lavoro, le norme di sicurezza, le leggi di tutela ambientale le hanno spinte sparire per a venire a insabbiarsi quasi di nascosto sulle spiaggie del sud del mondo. E le spiaggie del sud dell'India, del Pakistan, del Bangladesh sono diventate apocalissi di grandi scafi sfasciati, enormi lastre d'acciaio, giganteschi motori marini arrugginiti e larghe lagune d'olio e nafta in acqua e sulla sabbia. Dappertutto i liquidi che colano da quel che resta delle navi hanno contaminato tutto il perimetro intorno, dove gli operai lavorano immersi fino alle ginocchia.Hassan mi racconta ancora, mi parla di Omar che aveva vent'anni e faceva l'apprendista carpentiere prima che sentisse il sibilo di un cavo che si spezzava e lo tranciava di netto in due. Hassano lo racconta senza emozione, mi dice che Omar tossiva sangue da quando lavorava dentro il ventre fetido del cargo Coreano tagliando grandi pezzi di acciaio da riciclare con il fumo e le esalazioni che toglievano il respiro. In Pakistan non c'è lavoro e i giovani come Mehdi e Omar arrivavano a Gaddani a stormi. Una settimana prima che Hassan decidesse di partire, tre operai che stavano tagliando sezioni dalla stiva di una petroliera arsero vivi quando i vapori delle benzine a un tratto esplosero. Accorsero tutti, anche se sapevamo benissimo che quei tre erano certamente già morti. Quando riuscirono a spegnere l'incendio di loro non era rimasto letteralmente niente. Quel giorno Hassan decise di tentare la fortuna, di giocare a quella roulette e prendere una lancia verso l'altro mondo al di là del mare, un mondo che gli avrebbe potuto portare la prigione e invece lo aveva premiato chiamandolo qui al Raffles a pulire i cessi.
Si apre una porta e un tizio esce: è un giovane arabo con un lungo kandura bianco immacolato, i Ray-Ban sul ghutra e un Baume Mercier al polso. Quando passa lascia una deliziosa scia di balsami e di creme profumate che lo accompagna fino all'uscita. Finalmente è il mio turno: posso andare in bagno. Quando uscirò Hassan non ci sarà più. Non so se sia finito il suo turno, se si sia pentito di essersi raccontato oppure se semplicemente tutto questo me lo sono solo immaginato. Al suo posto c'era un bel vaso con dei piccoli fiorellini blu.

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