Quando gli passò anche la voglia di ammazzarsi, si mise addosso la prima cosa che trovò ed uscì. Non sapeva dove andare. Aveva solo voglia di incontrare un perfetto estraneo con cui parlare a vanvera.
Agosto. Soldi per partire non ne aveva. Progetti, nemmeno quelli aveva. La ruota dentata della provincia girava lenta e a fatica puntellando i giorni come una tortura medievale dall’ingranaggio sfasato.
“…E i denti siamo noi. Tutti quanti.”
Il vento e le macchine soffiavano in mezzo al caldo. Nelle città di provincia la gente non utilizza i trasporti pubblici, un po’ perché le distanze sono brevi, un po’ perché prendere l’autobus sa di miserabile ed il provinciale farebbe qualunque cosa per non sembrare un miserabile.
Auto. Queste piccole o grandi celle di ferro che andavano da una parte all’altra della città, erano anche loro denti.
Gli autobus non erano diversi, ma li prendevi a casaccio e andavi fino al capolinea e poi facevi il percorso al contrario. Era una trance a basso costo. Per questo gli piacevano gli autobus.
La città non era poi così deserta. Da qualche tempo la gente partiva meno – l’epoca dei cosiddetti esodi era finita.
Le chiamavano vacanze. Lavoravano un anno intero per una o due settimane di ferie. Fregati tutti quanti. Una settimana di ferie: togli due giorni per andare e tornare, ne restano cinque: togli il tempo di disfare e rifare le valigie e tutto, ne restano quattro e mezzo circa: quattro giorni e mezzo di mare, quattro giorni e mezzo di montagna, poi al lavoro. Per un altro anno. Per trenta, trentacinque anni. Quattro giorni e mezzo all’anno senza doversi alzare tutte le mattine prendendosela con Dio, che, magnanimo, non li fulminava all’istante. Dio lo sapeva che volevano buttarsi dalla finestra e che per resistere se la prendevano con lui, così lasciava correre.
Le chiamavano vacanze. Certo non era per tutto questo che non partivano. Giravano pochi soldi, gli stipendi si erano abbassati ecc. Ma anche se avessero potuto, restava il fatto che la ruota era lì ad aspettarli, per altri trecentosessanta giorni.
“…E poi ritornano a fare i denti.”
Le chiamavano vacanze.
Una vita a lavorare. A risparmiare. A fare la fila. A pagare bollette. A mettere da parte i soldi “per il futuro dei nostri figli”. Già, i figli. Denti figli di denti. E così all’infinito.
I disoccupati: quelli erano gli unici a poter dire di essere in vacanza. Non avendo niente, non partendo da niente, non aspettando niente, erano in vacanza da se stessi. A differenza dei denti, a loro toccava di essere i morsicati. I dilaniati. Gli stritolati. Ma al massimo che gli poteva succedere? Più che morire che gli poteva succedere? E allora? Già erano morti. Almeno però potevano morire con dignità: loro, i disoccupati di se stessi. Mille anni luce lontani dalla cosiddetta vita dignitosa: moglie figli un cane un mutuo quando i figli si sono ‘sistemati’ ce ne possiamo anche andare che abbiamo dato. Ma che cosa avessero mai dato lo sapeva il cielo.
L’autista dell’autobus che prese era un obeso di sessant’anni, prossimo alla pensione e, con ogni probabilità, dopo una vita a sferragliare su e giù, prossimo al suicidio. Ebbe per un attimo l’impulso di andargli a dire: “mi dispiace. Ma è andata così. Lo capisci anche tu.”
Arrivò in centro. Scese dall’autobus e, stanco non sapeva per cosa, si rivolse ad una studentessa con l’aria non troppo convinta di essere una studentessa.
“Ciao.”
“Ciao.”
“Ecco, mi chiedevo se era poi così difficile.”
“Eh?”
“Non era poi così difficile.”
“Già.”
“Io sto andando a zonzo.”
“Io alle poste.”
“Ti va se facciamo un pezzetto di strada insieme?”
“Perché no?”
“Io stamattina quasi quasi mi volevo ammazzare.”
“E perché?”
“Perché qualunque cosa io faccia o pensi di fare, è solo un’altra cosa.”
“Anch’io una volta mi volevo ammazzare.”
“E poi?”
“Chi me lo faceva fare. Tanto prima o poi.”
“Vero.”
“Io studio Lettere.”
“Non avrai la vita facile.”
“E’ una questione di scelte.”
“No, è una questione di fregature.”
“Qualcosa bisogna pur fare per vivere.”
“Beh, vorrà dire che passerai la vita ad insegnare cose noiosissime a bambini virtuali che le sanno già.”
“Vorrà dire che faticherò meno.”
“Vero. Senti, ti andrebbe di fare un gioco?”
“Cioè?”
“Ecco, ci mettiamo a cavalcioni su quel muretto e, guardandoci negli occhi, ci diciamo delle cose. Ma così, a vanvera, come se parlassimo da soli.”
“Ma sembreremo due matti!”
“Ah si?”
Si parlarono addosso per una buona mezz’ora, senza dirsi niente, senza ascoltarsi, facendo solo del rumore. Smisero quasi insieme, storditi, esausti, spossati.
“Ci siamo salvati per una volta.”
“Da cosa?”
“Dai denti.”
“Quali denti?”
“I denti della provincia, dell’ingranaggio, sì, insomma, di questa macchina che gira a vuoto, tutti noi, tutto questo.”
“Si ma uno deve pure…”
“Uno non deve proprio un bel niente.”
Le propose di andare nella chiesa lì vicino per una ‘preghiera a due’. La ragazza ne fu sorpresa e lievemente turbata, ma alla fine accettò l’invito.
Lui la prese per mano e la guidò nella chiesa, dove, ai piedi del crocifisso le chiese di ripetere insieme a lui:
“Mio Dio, mio Dio, fa che ora che ci siamo trovati, non ci incontriamo mai più. Amen.”
Usciti, le tenne ancora la mano per qualche istante e poi, di tre quarti e come salutandola per sempre:
“Ma non dovevi andare alle poste?”
“Ci andrò un’altra volta.”
di Mauro Savino, VI classificato, Sez. Racconti, All rights reserved
Nota biografica dell’autore
Mauro Savino è nato a Tricarico (MT). Vive a Roma. È laureato in Giurisprudenza e in Filosofia.
Ha pubblicato le sillogi Il respiro dell’acqua (Ediclub, 2004); Benedizione selvaggia (Il Filo, 2005); 30 Pugnali (Montedit, 2005); la plaquette Canzone d’Aprile (GDS, 2010).
È presente in diverse opere collettive di poesia e narrativa.
Compare in diverse antologie di Premi Letterari ed ha ottenuto diversi riconoscimenti in ambito poetico, tra cui diversi primi posti in concorsi letterari nazionali e internazionali.
Nelle stagioni 2006-2009 ha recitato nello spettacolo teatrale Sanbasiluc – Viaggi nei paraggi, di Mariano Lizzadro (Lucania, Campania); nella stagione 2008-2009 in Sogni confusi precari disillusi, di Mariano Lizzadro e con la regia di Lucio Corvino (Lucania); nella stagione 2009-2010 in Alzate le ancore, mollati gli ormeggi! di Mariano Lizzadro (Bella (PZ),Teatro “Periz”). Nel 2007 ha interpretato Reading, reading/performance di sua composizione (Potenza, “Sotteatro”).
Come performer e voce recitante della band cross-over Bandog, di Potenza, ha partecipato al Pollino Music Festival nel 2005 e nel 2006; sempre nel 2006 al contest Basilicata Music Net e all’ Arezzo Wave Love Festival; all’ Italia Wave Love Festival nel 2008, come ospite della manifestazione e all’evento You & Us pro Abruzzo nel 2009 (Potenza, Teatro “2 Torri”).
Ha preso parte a molte manifestazioni artistico-letterarie, tra le ultime lo spettacolo di teatro e danza ART’E’ (2010, Roma, Teatro “Vascello”); la lettura dell’ Alceo di Antonio Ongaro nel corso dell’evento Nettuno legge il suo poema (2010, Nettuno, Forte S. Gallo); la manifestazione Editoria di poesia (per piccina che tu sia), coordinando e intervenendo nella performance “Quartetto di performatiche” con Tomaso Binga, Maria Grazia Calandrone, Chiara Daino e Sara Davidovics (2010, Nettuno, Forte S.Gallo);
Nel 2010 ha ottenuto la “Menzione d’onore” al “Premio nazionale di Letteratura e Teatro Nicola Martucci”, nella sezione Premio Attore.
Collabora con la rivista letteraria telematica Lucaniart Magazine. Dal 2010 collabora al progetto di sperimentazione audio-visiva Thetawaves Industries, per cui ha realizzato il concept del video Nux, segnalato come opera fuoriconcorso al Festarte Videoart Festival 2010 (Roma, MACRO).