Racconti di cinema: Tradurre Dalia Nera & Rosa bianca di Joyce Carol Oates

Creato il 17 novembre 2014 da Vanessa Valentinuzzi

Titolo: Racconti di cinema
A cura di: E. Morreale, M. Pierini
Autori: AA.VV. (tra cui J.C. Oates, D. Starnone, M. Soldati, D. DeLillo, R. Bolaño, I. Némirovsky)
Editore: Einaudi
Data di uscita: 18 novembre 2014
Genere: Antologia di racconti
pagine: 407
prezzo: 22 €

Dalia Nera & Rosa Bianca è un meraviglioso racconto di Joyce Carol Oates, – all’interno della raccolta Racconti di cinema, curata da Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini – che ho avuto la fortuna di tradurre per Einaudi. Per me è stato un vero onore perché si tratta di una magnifica autrice. Ma è stata anche una sfida: la scrittura della Oates è fatta di periodi lunghi, frammentati al loro interno da numerosi incisi. Inoltre, le voci narranti del racconto sono ben tre, con tre personalità distinte, che raccontano la versione dell’omicidio dell’aspirante attrice Elizabeth – “Betty” – Short,  nota come la Dalia Nera. La Oates è dunque partita da un fatto di cronaca, immaginando cosa possa essere accaduto ad una ragazza di vent’anni ritrovata a pezzi in un campo desolato, una mattina di gennaio del 1947 .
Chi di voi ha letto il libro di James Ellroy sa di cosa sto parlando: la polizia di Los Angeles lavorò duramente per risolvere il caso, ma il colpevole del macabro assassinio non fu mai scoperto. Le pagine dei giornali si riempirono di foto, pettegolezzi/ipotesi sull’omicidio per lungo tempo, dato che il caso mostrava il lato glam & oscuro di Los Angeles – la vita della ragazze che inseguivano il dorato mondo hollywoodiano poteva essere falcidiata crudelmente in una sola sera.
La prima voce narrante è di K. Keinhardt, il fotografo che inventò le pin-up, vendendo foto per calendari. La seconda è quella di Norma Jeane Baker, ovvero la meravigliosa Marilyn Monroe prima di diventare Diva. La Oates si lascia dunque affascinare da una leggenda metropolitana sulla Dalia Nera e ipotizza che le due ragazze – mentre si davano da fare per partecipare a casting e mantenersi – fossero compagne di stanza in una lussuosa villa di un noto produttore. La terza voce è proprio quella della Dalia Nera che, da un immaginario oltretomba, ci racconta cosa le accadde, svelando persino l’identità dell’assassino.

Trovare il tono giusto per ogni personaggio in una storia noir narrata in stile postmoderno è stata dunque la prima sfida: Norma Jeane e Elizabeth sono due ragazze di umili origini che hanno lasciato presto gli studi; la prima è tenera, ingenua & infantile, ma anche seria e disciplinata (non salterebbe mai le sue lezioni di recitaizione e danza); la seconda è mondanissima e più smaliziata all’apparenza, ma con delle ferite interiori che la rendono fragile come la sua ‘amica’ (c’è un po’ di invidia/risentimento tra le due, come vedrete). La Dalia Nera è anche un bel po’ arrabbiata perché, per colpa di un folle, non ha avuto neanche l’occasione di vedersi sul Grande Schermo.
Ho deciso  di mantenere il più possibile questi tratti distintivi nella scelta delle frasi, rispettando anche la punteggiatura originale (pochissime virgole o punti, come se i personaggi si stessero sfogando, parlando tutto d’un fiato, usando frasi spezzate, sconvolti dall’orrendo crimine perpetrato sull’innocente Betty).
Il fotografo, invece, ha una sfumatura di voce narrante tipicamente noir e rappresenta perfettamente il cinico artista frustrato di Hollywood, a cui importano solo soldi & successo. Nel suo caso ho tradotto termini come Fifty bucks con  ‘cinquanta verdoni’ mantenendo un tono un po’ rétro, perchè lui è un tipo che parla così:«Ragazze giovani a corto di denaro per vivere e uomini più grandi con i soldi – a L.A. – bella combinazione, eh? È stato così e sempre lo sarà – è la natura umana & la base della Civiltà».

Mi sono talmente appassionata alla storia della Dalia Nera che sono andata a leggere ogni cosa che ho trovato in rete, anche dei documenti dell’FBI. E grazie a questo racconto, ho scoperto moltissimo anche su Marylin, passando serate intere a leggere interviste finché non mi è sembrato di conoscerle, queste due ragazze. Alla fine della traduzione, mi è capitato addirittura di sognare Betty Short. So cosa state pensando: è davvero utile questo esercizio di documentazione? Vi rispondo citando la grandissima traduttrice Susanna Basso: a volte è giusto concedersi il lusso di esplorare i personaggi perché «ci si cala nei buchi profondi della scrittura». La traduzione non è una scienza, non è una corrispondenza tra parola e parola;  a volte il tono, lo stile, la voce narrante si trovano perdendosi nella storia.
Un altro scoglio grande è stato l’uso dei verbi: in inglese si risolve tutto con il passato remoto, in italiano a volte abbiamo bisogno del passato prossimo. Dopo le prime stesure mi sono accorta che avevo usato il passato prossimo in troppi casi, e ho riportato di nuovo tutto al passato remoto, tranne in un paio di eccezioni. (Grazie alla bravissima, preziosa Federica Aceto che con un bel post sul suo blog mi ha aiutato a riflettere sull’argomento).

Infine, un’altra cosa geniale della Oates è stata tratteggiare una Los Angeles oscura, spaventosa. Dal racconto di Betty scaturisce un senso di minaccia strisciante in tanti piccoli dettagli, parole che contribuiscono a creare un’atmosfera di pericolo e disagio. Un termine sul quale mi sono soffermata a questo proposito è «glittery glasses» usato per descrivere gli occhiali di un misterioso uomo che un giorno avvicina la Dalia Nera offrendole un passaggio in auto. Inizialmente ho pensato di tradurre con qualcosa tipo occhiali scintillanti/luccicanti Ma in revisione ho optato per un più creativo riverberanti.
Immaginate la Dalia Nera. Sta uscendo dallo studio fotografico, indossa un vestito attillato e tacchi alti. Su di lei il sole bianco, accecante di Los Angeles talmente intenso che le fa lacrimare gli occhi. Un uomo dall’aspetto elegante, la macchina pulitissima, le scarpe perfettamente lucidate, il colletto inamidato, le offre un passaggio: «& quando lo vidi, gli occhiali riverberanti come quelli di un politico o di una personalità pubblica, il sorriso teso ma educato, mi balenò un pensiero Questo qui è benestante & affidabile – & forse mi venne in mente Questo qui è benestante & può essere gestito, da Betty Short».
Ma quanto si deve sentire il traduttore nella frase, fino a che punto si può/deve essere creativi? A dirvi la verità temevo che la matita rossa dei fantastici revisori Einaudi (che ringrazio vivamente) si abbattesse sul mio povero aggettivo, ma per fortuna è piaciuto e ci ha evitato di ripetere troppe volte termini come ‘splendente’ o ‘luccicante’ che riccorono nel testo. Insomma, non c’è una formula, ogni volta bisogna cercare il giusto compromesso tra l’originale e l’idioma di arrivo.


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