Una fragola sul tavolo lo guardava, aspettando di essere mangiata.
Una fragola dimenticata sul tavolo lo guardava implorandolo, sussurrandogli qualcosa, ma lui non sentiva. Gli diceva di avvicinarsi, avvicinati, sì, proprio tu. Vieni qui, voglio solo raccontarti una storia.
Una fragola era stata messa sul quel tavolo per aspettarlo.
E per raccontargli questa storia.
Bianco e nero.
“Nessun grigio, nessuna via di mezzo. Il mondo è bianco e nero e tutto il resto sono stronzate. Anche noi, noi uomini intendo, siamo questo. Non è solo la storia della luce e delle ombre nel nostro animo. Tutti abbiamo pensato almeno una volta di far del male a qualcuno. Tutti abbiamo desiderato ferire. È normale, homo homini lupus, ci hanno insegnato. Però alla fine non lo facciamo, quasi mai. Ma quel desiderio rimane dentro di noi, un tarlo che ci scava, ci rode, ci logora.
Ad esempio, quella coppia: lei è palesemente stanca, non ne può più di stare seduta a quel tavolo mentre lui continua a fare lo spaccone con i suoi amici. Non ne può più: lo sta gridando e lui non lo vede.
Nero.
Lui non la guarda nemmeno.
Bianco.
Lei se ne andrà, lo lascerà, lo farà soffrire.
Nero.”
Era un giorno di Settembre e lui camminava per le strade del suo paesello. Tornava da una passeggiata sulla collina dietro casa sua.
Camminare creava spazio fisico e sonoro per pensare.
E apriva i suoi occhi, come se potesse captare più immagini insieme, come se fosse più sensibile agli sguardi dopo aver pulito i suoi occhi con la natura. Camminava e osservava la vita scorrergli accanto.
Si sentiva sfiorato, appena.
Accarezzato, quasi.
Non toccato.
Verde.
L’erba tra le dita dei suoi piedi scalzi, seduto nel parchetto vicino casa, con un libro di fotografie in mano e una cartina. Ha voglia di ripartire, di nuovo, solo. C’è così tanto da visitare che stare chiusi in camera sembra una spreco.
A breve ripartirà, deve farlo.
Erba che solletica il collo. Le nuvole bianche stanno in strane pose. “Un po’ come gli uomini”, pensa. Fragili come loro, veloci come loro e mutevoli. Anche lui vorrebbe cambiare ma si sente pesante , schiacciato su quella terra.
Blu.
Un cappellino e un sorriso lo hanno notato, da lontano. Un cappellino blu e deicapelli neri che spuntano dalla visiera. Lo scrocchio dell’erba sotto le loro scarpe e le parole sopra la testa. Sorride anche lui, di riflesso. Peccato, quando sarà lontano gli mancherà quel sorriso.
Con il tramonto raggiunge la sua porta di casa, la porta difettosa di casa. La muove avanti ed indietro per trovare la giusta posizione, per far girare la chiave. È una cosa che non ha mai saputo fare bene: aprire le porte e scoprire il modo giusto per girare le chiavi. Non aveva mai saputo quando era il momento di spingere o di rallentare; di correre o di fermarsi. Procedeva, sempre alla stessa velocità, alla stessa impercettibile velocità che a guardarlo da lontano sembrava fermo. Ma non lo era. O forse sì.
Alla fine riesce ad aprirla e dietro non c’è nessuno: incasa non c’è nessuno.
Bene, così può parlare da solo con lei. Sale le scale per andare in camera e si sdraia sul letto, fissa il soffitto bianco, come le nuvole mutevoli: “Ciao mamma…è un po’ di tempo che penso a quello che mi avevi detto, alla storia di scegliere la mia strada. Mi hai spinto a scegliere la facoltà che mi piaceva che poi tutto sarebbe venuto da sé, che il sentiero si sarebbe aggiustato davanti ai miei piedi, poco a poco. E io ho fatto così, mi sono laureato con la gioia di chi ama studiare e poi mi sono fermato. Sai mamma perché mi sono fermato? Perché non vedevo il sentiero. Era come se una coltre di nebbia rimanesse sospesa all’altezza del mio ombelico e non mi facesse vedere i piedi. Quindi, per paura di cadere in un fosso, mi sono fermato. E ho aspettato che qualcuno o qualcosa venisse da me, mi accennasse verso quale direzione camminare. Però nulla. Solo piccoli lampi che illuminavano la nebbia, facendomi vedere quanto fosse fitta. Ora mamma, sono stanco di stare fermo, ho deciso che ripartirò.”
Grigio.
La schermata iniziale del computer. Aspetta tamburellando sul bracciolo della sedia. “Strano, mi sembrava di aver lasciato qui quel foglio…ah no, l’ho messo via.” Apre il cassetto e lo trova. Lo tira fuori e lo guarda, soddisfatto. La lettera è pronta. La rilegge un’ultima volta e poi legge le mail: ce n’è una, di quella ragazza. Lei è felice, non vede l’ora di rivederlo domani.
Domani.
Anche lui vorrebbe essere felice di vederla, ma non ci riesce. Quella nebbia continua a seguirlo ovunque, instancabile. E lui vorrebbe solo scrollarsela di dosso per vedere i piedi, per vedere dove i suoi piedi toccano terra. Per vedere dove erano i suoi sogni, per ricordarsi come lo tenevano in piedi.
Rosso.
Scende le scale, con calma. Piega la lettera in quattro. La appoggia sul tavolo e sale in piedi sulla sedia. Guarda il pavimento.
Bianco.
Nero.
La corda
lo guarda
desiderosa
di averlo.
“Non fanno altro che porti davanti a bivi, per tutta la vita. Ti mostrano le decisioni come bivi: destra o sinistra. La puttanata di “sliding doors”: gli attimi che cambiano la nostra vita. In realtà ogni momento lo è, ogni momento la cambia, ci cambia. Ogni parola detta o taciuta, urlata o rispedita in fondo alla gola, in fondo al cervello, per dimenticare.” Lui ci ha pensato molto ed è giunto alla conclusione che non si tratta di bivi ma di baratri. Ogni volta decidiamo se saltare giù oppure no. Se rischiare oppure no. Se tuffarci nella nebbia oppure rimanere lì, fermi, aspettando che chissà quale vento la dissipi. E invece non succede nulla. Anzi la nebbia si infittisce, sempre di più. E sale, sempre di più, quasi ci soffoca. E così ci mettiamo sull’orlo del baratro e decidiamo se guardare da vicino gli abissi dentro di noi oppure stare lì, in superficie, grattare la superficie. Lui è stanco di vedere il suo volto distorto su quella superficie glaciale; vuole andare a fondo, vuole vedere quanto a fondo può andare.
Allora sfiora quella corda, pulsante di vita e la stringe. E in quel momento ripensa a tutti, torna indietro nel tempo. Rivede tutti. Li ama ad uno ad uno con tutto se stesso. Ma non basta, deve vederci chiaro. L’altra mano si alza, abbandona la posizione sul fianco; mette quella lettera in tasca, come biglietto per quel viaggio, quel salto.
Guarda il sole tramontare
e tramonta con lui.
Rosso.
La fragola sul tavolo dimenticata da chissà chi, o forse lasciata lì da lei, lo guarda, tacendo. In piedi su quella sedia fissa quel rosso, quell’amore, quel dolore e piange, finalmente.
Scende da quel treno non ancora partito.
Una musica lo richiama alla vita, una musica nella sua testa, suonata tante volte alla chitarra. Una musica che arriva dalla radio del vicino, dal suo cuore ora di nuovo vicino. Una musica che gli ricorda da dove viene, che gli ricorda il suo passato, che gli fa vedere i suoi piedi. Con gli occhi ricolmi di lacrime guarda il cielo. E sa che può e deve andare avanti, ancora. Sa che una strada la troverà, anche se non sarà proprio la sua. Non è vero che ognuno di noi ha la propria strada: ognuno si costruisce una strada. E più va verso terreni non battuti, più rischia di perdersi, di smarrirsi, di non ricordare chi è. Alza gli occhi ricolmi di lacrime e vede rosso, il cielo.
Notte.
Suo padre rientra a casa dopo un weekend di pesca. Chiudendo la porta bisbiglia “Ciao Angela”. Sospira e va in cucina. Non accende la luce ma nota un’ombra. All’inizio non riesce a capire cos’è. Allora si avvicina.
Nota la forma dell’ombra sul tavolo e sorride.
Ecco dove aveva appoggiato quella fragola.
di Ilaria Testa, IV classificata, Sez. Racconti; All rights reserved
Nota biografica dell’autore
Ilaria (Maria Angela) Testa è nata a Milano ventidue anni fa ma vive ad Arcore da quando aveva due anni. Ha frequentato il liceo classico a Vimercate, una cittadina vicina, diplomandosi nel 2009; ora frequenta il terzo anno di Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e attualmente si trova in Erasmus a Valencia.
Ha partecipato a un corso di scrittura organizzato alla Feltrinelli di Piazza Piemonte (Milano) dalla Scuola Holden di Torino. Nel Febbraio del 2011 ha partecipato ad un concorso di scrittura bandito dalla Biblioteca di Vimercate; si è qualificata tra i primi dieci e il suo racconto è stato pubblicato in un libro raccogliente i testi degni di nota.
Ora continua a coltivare il suo interesse per la scrittura a 1350km da casa.