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E invece no, forse non ci siamo ancora arrivati. Ma alzandoti sulle punte dei piedi vedi qualcosa sporgere al di là delle teste. Una protuberanza scura, ramificata. La folla avanza un poco e finalmente con lo sguardo riesci a seguire la linea di quel bizzarro pseudo-ramo fino a incrociarne l'origine: la testa imbalsamata di un cervo. L'occhio di vetro nero ti fissa e ammicca: anche tu qui, sfigato!
– Questo è un impala della Tanzania, mi ricordo che arrivammo in idrovolante alle quattro del mattino su... – La voce appartiene a un signore anziano molto simile a Chiappe Flosce. Forse è il fratello. Di certo è più vecchio e più logorroico. Mentre osservi le pareti ricoperte di trofei di ogni specie e colore, tutti rigorosamente muniti di corna o palchi, il tuo orecchio capta il fluire incessante e ricco di dettagli del bracconiere, un avventuriero con i controcazzi, a suo dire. Siamo atterrati qui, ci siamo incagliati lì, abbiamo allunato là, siamo precipitati qua, e i suoi racconti prendono vita davanti a te, lo vedi saltare fuori, doppietta in mano e binocolo al collo, dalle foto corredate di didascalia che riempiono gli spazi vuoti lasciati dalle teste. Lo vedi sistemare il cadavere della nuova preda per la messa in posa, inarcare la testa dell'alce, o il caribù, o lo gnu, o l'impala, perdio!, perché si vedano bene le corna. Lo vedi inginocchiarglisi accanto e accarezzargli la testa davanti alla macchina fotografica, prima di avvolgere le preziose membra in un sacco, infilare la testa con tanto di corna in un preservativo di gommapiuma e spedire il tutto all'imbalsamatore di fiducia. O forse ci lavora lui in persona, chi lo sa. 1980, 1992, 1997: le didascalie raccontano decenni di scorribande in giungle, tundre, macchie, deserti, vallate, in cerca di animali provvisti di corna o altre protuberanze. Il salone è pieno di corna dalle forme più disparate. Non capisci un cazzo di animali – qual è la differenza tra una gazzella e un'antilope? Boh! –, vedi soltanto un intreccio di spuntoni, spirali, protrusioni simili a paraboliche, cornini corti e tozzi, e soprattutto vedi gli occhi, che tu sai essere finti, ma che in qualche modo ti seguono come quelli della Gioconda, li senti perforarti le spalle, e ti chiedi come possa fare quell'omino a sopportarne l'acume. Il quale omino ora sta accarezzando un ghepardo bianco – senza corna, cribbio! – con lo sguardo puntato sul pacco, o meglio, pacchetto, del suo assassino. – E questo un ghepardo! Non leopardo, ma ghepardo, quello veloce! – Come a dire: sono stato più veloce io, sono un fico pazzesco. Ti par di sentire il fruscio della sua mano sul pelo morto del felino, rumore molesto per il tuo stomaco, come un gessetto non spezzato sulla lavagna. Il sorriso della donna-pupazzo accanto a lui (corna? qualcuno ha parlato di corna?) sta per risvegliare definitivamente il merluzzo salato che si agita nel tuo stomaco, sbatte la coda, si arrampica lungo l'esofago, e sai devi fare qualcosa per fermarlo, scappare, certo, ma la via di fuga è ostruita, attorno a te tutti sono immobili, ingessati, imbalsamati, e gli occhi degli animali morti ti pungono, non resisti più, devi agire...
Alzi la mano. Lo sterminatore si interrompe. – Vuole chiedere qualcosa?
E tu, con il merluzzo resuscitato alle porte della faringe: – Se aveva bisogno di attaccapanni poteva andare all'Ikea. Costano meno e sono più comodi.
La mandibola del vecchio bracconiere penzola. I tiranti della donna-pupazzo si smollano, rilasciando la pelle lucida e deformata. Quella donna è davvero un pupazzo. Qualcuno sghignazza. Il ghepardo ti fa l'occhiolino.
Il ghepardo ti fa l'occhiolino.
E il caribù. E il cervo. E l'impala, questo sconosciuto.
Il bracconiere finalmente articola un fonema: – Non credo di aver capiiiiIIIIIOOOOOAAAAAAHHHHH! –, e la sua mano non c'è più, svanita tra le fauci rapidissime del ghepardo. L'aria si riempie di un rumore strano, come di biglie che cadono. Volti la testa: il cervo sbraita e si agita. C'è da capirlo: gli occhi di vetro sono caduti lasciando le orbite vuote e cieche, il corpo finito in qualche pentola o peggio ancora in un cassonetto per rifiuti organici. Ci sta che sia leggermente incazzato. Attorno a lui altre teste iniziano a muoversi e sbuffare, altri occhi cadono. La gente urla, si fionda verso l'uscita mentre il ghepardo banchetta con i maroni del bracconiere – piatto ben misero, a dire la verità. La donna-pupazzo, o pupazzo-donna, prova a sgambettare con le sue estremità di legno per portarsi in salvo, ma un occhio di vetro rotola sotto il suo piede con un tempismo che ha il sapore del divino, nella tua bocca il gusto acre di merluzzo è scacciato dall'ambrosia mentre il culo del pupazzo-donna rovina a terra con lo schianto secco di qualcosa che si spezza. Legno di balsa: pessima qualità per un pupazzo.
Attorno a te il concerto di urla sfiora vette operistiche. Gli uomini rotolano a terra. Le teste divelgono i chiodi che le imprigionano alla parete e si trascinano verso gli avventori, selezionando con cura le loro vittime. Con tutta la calma del mondo scavalchi quei brandelli di umanità e bestialità variamente mescolati e guadagni l'uscita. Gli occhi di vetro si scansano al tuo passaggio. Non appena varchi la soglia l'urlo più potente di tutti fa esplodere i vetri. Le foto finiscono a terra. Ti volti e vedi il bracconiere scalciare con tutte le sue forze la testa dell'impala che si è insinuato tra le sue gambe. Le corna dell'impala non sono molto lunghe, ma bastano. Chiappe Flosce, comparso misteriosamente accanto a lui, lancia grida torcibudella in empatia con il presunto fratello.
Impalato dall'impala, pensa te.
Al tuo fianco un tipo sghignazza, lo stesso di prima. – Impalato dall'impala, bella questa! – Ma l'hai detto o l'hai pensato? Hai le idee un po' confuse in merito.
Deve essere colpa del merluzzo.
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