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Racconto: "Deadwood" di Caleb Battiago

Creato il 31 ottobre 2014 da Letteratura Horror @RedazioneLH
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Pubblicato Friday, 31 October 2014 00:01
Scritto da Caleb Battiago

Racconto: "Deadwood" di Caleb Battiago è il racconto inedito pubblicato esclusivamente sulle pagine di LetteraturaHorror.it Buon Halloween a tutti!
In questa giornata di Halloween 2014 LetteraturaHorror.it ha l'onore e il privilegio di presentarvi un racconto inedito e scritto appositamente per tutti voi, cari lettori, da Caleb Battiago (alias di Alessandro Manzetti) dal titolo Deadwood.


Deadwood è possibile leggerlo online in questo articolo o scaricabile nei formati pdf e ePub.
Clicca qui per saperne di più e leggere note sull'autore clicca qui e www.alessandromanzetti.net

DEADWOOD
Un racconto di Caleb Battiago


2 agosto 1876, ore quindici. Deawood, Dakota, territorio indiano o quasi. Polvere, merda e cuoio cotto dal sole, le poche ombre delle spalle ruvide, scure, delle Black Hills dai denti d’oro. Uomini e bestie sudano in sincronia, cavalcando e zoppicando. File di case fatiscenti, budella di legno. Plotoni di minatori ubriachi senza più unghie, a forza di grattare. Il reverendo Henry Weston Smith, col cranio deformato da un tumore al cervello, dondola sulla sedia del grezzo porticato, il suo piccolo Limbo. Ci vuole un pazzo per officiare dieci funerali al giorno, tra le corse delle pallottole e le mani nere del vaiolo.
Dalle finestre del Gem Theater, il bordello di Al Swearengen, fiotti di sperma e bestemmie si versano sulla strada, sugli stivali di zombie senza pantaloni. Sono quelli che hanno perso tutto al gioco: la mano sbagliata, le carte puttane e il whisky annacquato, i coltelli piantati sotto lo scroto dei tavoli dei saloon. Le piramidi di bicchieri scheggiati che sfiorano i lumi arancioni. Le scale, i primi piani, i paradisi di cosce per vincitori e perdenti, tagliati in due da magri corridoi di novanta centimetri. La danza delle molle arrugginite, dietro le porte, la puzza di carne marcia arrostita, presa a calci in culo dal vento per dieci chilometri, della cena di Cavallo Pazzo, tra le montagne. Sono i resti dei soldati di Custer, affettati due mesi prima. Ancora buoni da mangiare, secondo i Sioux. "Hoka Hey!"
2 agosto 1876, ore sedici. Saloon No. 10. Wild Bill Kickok si è fatto prestare cinquanta dollari per giocare. Poker, che altro gli resta? Non vede più un cazzo con quel glaucoma che continua a rosicchiargli il nervo ottico. Non riesce più estrarre le pistole, figuriamoci a sparare. Ma bastano i cento accoppati che ha sulla coscienza per farsi rispettare ancora. Wild Bill ormai spara solo con l’occhio sinistro, quello buono, e tanto basta per far cacare sotto ubriachi e pistoleri in erba, per far aprire gratis le gambe allo squadrone di troie di Al Swearengen.
Carl Mann, dalla prua del suo bancone scrostato, indica a Wild Bill il tavolo all’angolo, sulla destra. Solo due giocatori, ma di quelli giusti, e una sedia vuota. Alzano i bicchieri, si fanno notare. La fibia della cintura di Wild Bill luccica più del solito, gli fa da torcia per districarsi tra i tavoli, tra le spire del fumo sospeso, tra tette profumate e croste di cercatori d’oro. Tutto sotto quella maledetta luce arancione senza palle.
Wild Bill stringe gli occhi, distingue gruppi di picche e di fiori su fondo bianco, ha raggiunto il tavolo giusto. Gli versano da bere, un buon inizio. Uno dei due giocatori ha una faccia conosciuta, pensa Wild Bill, ma sta guardando se stesso, in realtà. Il glaucoma del cazzo lo confonde, scambia quella sagoma sfocata per un tipo quale ha fottuto centodieci dollari, qualche sera prima. L’altra ombra, senza cappello, non gli ricorda nulla. Una forma qualsiasi, sarà un bastardo come tutti gli altri. No, è una bastarda invece, la sua voce è di sabbia, graffia e poi carezza: una frusta immaginaria, un cortocircuito di zanne e di roba morbida.
L’immaginazione di Wild Bill si accende, quella ci vede ancora bene. Immagina un letto di morsi, di lividi, di morbide curve brune, di pozzi profondi e di grate di ferro, ingredienti che solo poche femmine sanno mescolare. Una troia senza redini, è sicuro, non certo una delle bambole di carne di Al Swearengen; il naso di Wild Bill l’avrebbe capito subito. I suoi baffi conservano gli umori di tutte, nessuna esclusa. Una giocatrice? Sarà una partita divertente.
La donna sposta la bottiglia dal centro del tavolo, confinandola nell’angolo, mischia le carte. Wild Bill si guarda alle spalle, ha l’ingresso che soffia sulla schiena, non è una buona cosa per chi ne ha accoppati troppi, sente il fiato sul collo dei fantasmi di tutti quei figli di puttana. Carl Mann, dal suo bancone, fa segno con lo straccio. Sarà lui ad avvisarlo, in caso di pericolo.
Wild Bill prende le carte, la troia le lascia sul tavolo senza guardarle, l’altro se stesso le sfoglia lentamente, cercando di tirare i cavi della fortuna. Niente male come prima mano, pensa Wild Bill, una coppia di assi e di otto, tutti in nero. Non si sbaglia stavolta, le ha avvicinate bene agli occhi balordi. Decide di giocarsi tutti i cinquanta dollari, si scola il bicchiere, aspetta gli altri. Solo la donna, quella serpe, non si tira indietro e accetta la puntata. Scuote la coda, i sonagli, poi mostra le carte. Una coppia di assi e di otto, tutti in nero. Anche lei.
Wild Bill sposta le dita sui manici di avorio delle sue pistole, un baro non può passala liscia a Deadwood, il reverendo farà gli straordinari domani. L’altro giocatore è scomparso, maledetti occhi balordi, se la sarà squagliata. Resta solo la donna davanti a lui, a giocarsela fino in fondo. Le pistole non escono dalle fondine, ma la vista torna quella di una volta. Wild Bill riesce finalmente a vedere il viso della troia, chiaro: le linee decise e quella pelle senza tempo, senza tracce di qualsiasi tipo. Non gli sta puntando una pistola, non armeggia un coltello. Potrebbe farlo fuori facilmente, cosa aspetta? Diventerebbe anche lei leggenda, in poche ore, la sua fica muterebbe in una miniera di diamanti dall’intestino infinito. Invece no, sorride, ha qualcosa nelle mani, la mostra a Wild Bill che allunga il collo. Che roba è? È il suo cervello, caldo e pulsante. Pensieri, ricordi che colano densi sul tavolo, sulle carte, sulle coppie di assi.
Carl Mann balza fuori dalla sua postazione, scavalcando il bancone, afferra Jack per i capelli e lo sbatte contro il muro. Non si è accorto della sua maledetta calibro 45 da polsino. Il piccolo bastardo ha sparato a Wild Bill alle spalle, sfondandogli la testa. Il suo vecchio amico è crollato sullo schienale della sedia, con gli occhi balordi che fissano il marcio soffitto, le macchie dell’umidità dalle forme bizzarre, le ombre reali, quelle che vivono senza il cannocchiale del glaucoma. Impiccare un ragazzino, ci mancava solo questa a Deadwood. Il reverendo si fa il segno della croce, poi torna a vuotare la pancia della sua bottiglia. Coraggio, serve coraggio, in questa dannata città.
Wild Bill sale le scale insieme alla sua nuova puttana, arrivano al primo piano. La prima camera, a destra, è occupata. Dentro stanno spingendo alla grande, il letto, tolta l’ancora, sbatte sulla porta. Proseguono lungo il corridoio, l’ultima porta è quella buona. La troia delle coppie di assi trascina dentro Wild Bill, la sua lingua è calda, poi fredda. Neve, proprio d’estate, lo circonda: i piedi gelano subito, poi tutto il resto. La stanza si è squagliata, le pareti dilatate fino a sfiorare le Black Hills, per poi superarle ed estendersi su campi coperti di grano nero. Wild Bill affonda in una immaginaria vagina che si apre sotto di lui, fino a farsi inghiottire tutto intero. Dentro quel posto ritrova quella cazzo di luce arancione, e nient’altro. Neanche un mazzo di carte.
Sulla sua roccia Cavallo Pazzo si piega in due, deformando le mappe della sua vecchia pelle in una espressione di sofferenza. Un forte dolore nel fondo dello stomaco, improvviso, quello di una baionetta nelle viscere. Annusa l’aria, aspira il profumo agrodolce della Morte, così vicina. Capisce di non aver più molto tempo, mastica una radice per ricordare tutto, fino in fondo. Domani digerirà Custer, prima che sia troppo tardi. "Hoka Hey!"
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