Con questo bel racconto di fine d’anno, dell’amico Salvo Zappulla, chiudo le pubblicazioni del blog fino, appunto, all’anno nuovo. Vi segnalo che su questo blog è presente anche un mio racconto di Natale e un simpatico articolo dedicato alla Befana. Buone feste a tutti!
Il Vecchio, il Nuovo
di Salvo Zappulla
Sotto le sferzate del vento gelido, la misera baita sembrò sussultare destinata a cedere, vinta dalla furia devastatrice. Un’altra ondata violenta, decisa a spazzarla via sbrindellata in mille frammenti tra le vette candide che solleticavano il cielo, si infranse contro le assi di legno.
L’anno nuovo entrò spavaldo, senza bussare, aprendo la porta con una spallata. Portava con sé l’irruenza propria dei giovani. In maniche corte, nonostante la tormenta, si guardava intorno con scatti nervosi, come a cercare un nemico o a stanare una preda.
L’anno vecchio, accovacciato accanto al camino, in un angolo, con le mani protese verso la fiamma, ebbe un tremito. Non si voltò, stanco, rassegnato. Scosse la testa e mormorò a fior di labbra un rituale, una specie di nenia trenodica.
“È scoccato il dardo. Son maturi gli acerbi frutti, si piega lentamente il ramo. Anche le foglie cadono secche, aspettano l’altra vita.
E i racconti attorno al focolare sono diventati ricordi, ricordi che straziano il cuore. La puntina del grammofono scava solchi profondi nell’anima e porta alla luce stridenti note di perduta giovinezza.
Passato è il tempo. Finito è il tempo.
Quanto dolore!
La fiaccola lieve della candela si spegne, inutile attendere, è arrivata l’ora”.
Poi, come scosso da un ultimo sussulto vitale, appoggiandosi al suo bastone, l’anno vecchio si alzò in piedi: “Sei arrivato! Pensavo di avere ancora tempo. Pazienza”. Si accarezzò la candida barba, indugiando con delicata tenerezza.
“Sì, sono arrivato” rispose l’anno nuovo. “Purtroppo per te!”. Una voce come ghigno beffardo. “Sono arrivato e per te non c’è più tempo!”.
“È vero, non c’è più tempo. Tempo… tempo… ” ripeté dolente l’anno vecchio, come volesse trattenere tra i denti quella parola sfuggente.
L’anno nuovo sorrise compiaciuto.
“Devo andare. Com’è fuori?” domandò il Vecchio.
“C’è bufera”.
“Chissà che freddo!”.
“Non per me”.
“Sei giovane tu, hai il sangue che ribolle. Io no, forse non riuscirò a farcela, malandato come sono, ma non importa”.
“Non sono giovane, sono nuovo. Il Nuovo! Capito?”.
“È vero, è vero, non arrabbiarti. Nuovo, vecchio, cosa vuoi che sia. Si finisce di esser nuovi nel momento stesso in cui si arriva. E nel medesimo istante si è già vecchi, ti assicuro”.
“Basta. Vattene!”.
“Vado, ma tu cerca di essermi degno erede”.
“Degno erede? Degno erede” gli fece il verso l’altro. “Puah!” e sputò per terra con tutto il disprezzo di cui era capace. Poi gli puntò addosso gli occhi carichi di odio, penetranti come lame roventi, e ringhiò: “Nessuno ti rimpiangerà. Sei stato tra i peggiori, nessuno ti rimpiangerà. Lo senti il fragore dei petardi? Giù stanno festeggiando la tua morte. Senti come gridano entusiasti? Ti scacciano!”.
Il Vecchio ammutolì. Nel silenzio l’eco dei botti risuonava nitido, inclemente. Si coprì le orecchie con le mani per non sentire.
“Ingrati!”.
“La storia ti condanna” lo incalzò l’altro, e provò un piacere sadico nel vedere l’avversario prostrato, stravolto, senza difese.
Riuscendo a trovare un lampo dell’orgoglio antico, l’anno vecchio cercò di sottrarsi a quello sguardo inquisitore che non gli concedeva tregua.
“Non è vero!” si ribellò, ma aveva le lacrime agli occhi.
“Al tuo nome sono legate solo guerre e disastri ecologici… le barbarie più atroci! Vuoi negarlo?”.
Il Vecchio si accasciò, ben memore di tutto l’orrore cui aveva dovuto assistere. La sua voce divenne un’implorazione: “Basta! Basta! Di quale colpe mi accusi? Gli uomini hanno agito, non io; sono loro la causa di tutto! Io sono stato solo spettatore impotente”.
“Vattene!” gli urlò ancora il nuovo arrivato. “Vattene, non mi fai alcuna compassione”. Strappò via dal muro il calendario e lo lanciò tra le fiamme del camino. “Anche questo non serve più ormai, è vecchio, vecchio come te”.
Lo sfrattato provò una fitta lancinante nel petto, come se gli avessero strappato il cuore, raccolse le estreme forze e lentamente si rialzò, avviandosi verso la porta. Prima di abbassare la maniglia si voltò per l’ultima volta ad accarezzare con lo sguardo la baita che era stata il suo rifugio, il luogo stesso dove, da sempre, avveniva il passaggio delle consegne. Un velo di tristezza gli scese negli occhi umidi di pianto; pensava a quello che era stato, a ciò che era andato perduto. Se solo gli uomini ottusi avessero avuto un minimo di buon senso… Bah! A che serviva rivangare il passato? E questo nuovo arrivato che lo accusava, spietato, tracotante, pieno di astio. Eh, presto avrebbe capito! Le prospettive non erano certo rosee. Sì, avrebbe fatto esperienza sulla propria pelle. Non lo invidiava affatto. Volle dirglielo: “Se è vero che rappresenti il futuro, non ti invidio. Provo pietà per te e per ciò che ti attende!”.
Le cime degli alberi, tormentate dalle folate di vento gelido, si piegavano ancora in un sinistro lamento. Sapeva che non avrebbe avuto scampo, ma non gli importava di morire. Oh, fosse stato solo per quello!
“Aspetta!”
La voce del Nuovo aveva perduto, improvvisamente, qualcosa della prima baldanza.
“Aspetta! Spiegami, prima d’andartene, cosa intendi dire. Credi di impaurirmi? Cerca di essere chiaro; ti concedo ancora qualche minuto”. Si smarriva adesso la sua voce, balbettava incerta, sperduta nei meandri del dubbio.
Come basta poco a trasformare granitiche certezze in flebili angosce.
Il Vecchio richiuse la porta e con sollievo riassaporò il tepore del camino, poi disse: “Non è semplice dipanare il filo della memoria, si rischia di farlo spezzare, è così sottile!”.
“Provaci lo stesso!” urlò l’altro cercando, maldestro, di riacquistare l’iniziale spavalderia.
Posando il bastone e trastullandosi con la barba (come fossero nascosti lì i ricordi, tra i tanti fili bianchi), il Vecchio iniziò a raccontare, a raccontare, a raccontare…
Quanto durò quella nenia? Quanto? Chi poteva scandire i battiti del tempo, lassù, tra le vette ghiacciate che sfidavano il cielo? Forse l’ululato del vento, che aveva imparato i segreti del soffio perpetuo? O la notte timida, che aveva ceduto il suo ruolo alla prorompente vitalità della luce?
Si sgrovigliava il filo e le parole scorrevano. Si dipanava il filo e le fiamme del camino sprigionavano bagliori d’incantesimo tra filastrocche ammaliatrici, delicati sussurri di sirene, fanciulle dalla pelle di seta e suoni, melodie, arpeggi arcani.
“Si compirà il rito sacrificale e dal mio sangue di vitello sgozzato rifiorirà nuova vita. Radunatevi folletti dei boschi, danzate per me, tutti insieme, voi che mi siete stati sempre vicini, accompagnatemi nell’ultimo viaggio e rendete meno amaro il mio commiato…”
“Adesso basta!” tuonò il nuovo arrivato. Si sentiva la testa pesante, come fosse uscito da un lungo sonno, da uno stato di ipnosi. “Adesso basta!” e alzò la mano per scacciare quel ronzio molesto ma, con sgomento, la sentì stanca, priva di forze; anche la voce, che avrebbe voluto imperiosa e possente, risuonò rauca, affannata.
Il Vecchio riprese il suo bastone, si alzò, si diresse alla finestra e rimase immobile a fissare la bianca coltre di neve. Gli sembrò di scorgere qualcosa: un’ombra, una figura agile che si avvicinava a grandi passi. “Sta arrivando qualcuno” disse a voce alta.
L’altro sobbalzò. “Qualcuno? Come, qualcuno? Cosa ti vai a inventare, vecchio pazzo”.
“Sì, sta arrivando! E come marcia spedito! Eh, sono gambe giovani, anzi nuove”.
“Nuove! Come può essere? Mi hai ingannato! Ti sei preso gioco di me. Quanto è durato il tuo racconto? Quanto tempo?”.
“Il tempo è fiume che scorre verso il mare, indifferente alle nostre miserie. Anche tu, adesso, hai le spalle curve e la barba bianca”.
“No! No!” piagnucolò l’altro, tastando sgomento le rughe del proprio viso.
La porta, sotto la spinta di un’altra spallata possente, si spalancò ancora ed entrò il nuovo inquilino, mentre a capo chino i due vecchi si avviavano.
I loro passi stanchi affondavano nella neve, rendendo pietoso il caracollare delle spalle ricurve e l’annaspare delle mani nel vuoto, per lo sforzo dell’incedere.
Salvo Zappulla