Dunque, i fatti andarono suppergiù così.
Affondavo fino al collo in un buco nel terreno. Dal collo in su, ero circondata dalla neve. Ah, dimenticavo: intanto però pioveva, piano piano, ma pioveva. L’acqua mi scivolava lungo il corpo, appiccicandosi ai vestiti, per osmosi. Scendeva inzuppando la sciarpa e poi scivolava sotto, dove per la lentezza faceva in tempo a diventare tiepida. La sensazione non era tanto male, avevo anche fatto la pipì. Quel discreto brodino allontanava il pericolo immediato di una morte per congelamento. Il vero problema era la testa. In testa avevo un freddo, del tipo che avrebbe invitato a nozze il mio amico, al quale genitori megalomani avevano appaiato il nome Lucrezio a un cognome che già di suo faceva Poeta. Il mio amico, che io per brevità chiamavo Lu.Po., l’avrebbe definito un freddo “siderale”.
Ma Lupo non ne sapeva nulla del mio guaio. Stava sicuramente al chiuso, forse in sala prove o davanti a qualche schermata attraente, a esser buona potrei dire a “crogiolarsi”, in attesa dell’ispirazione. Si era completamente dimenticato che il giorno dopo avevamo entrambi un esame. Ne ero certa. Lupo e gli altri del gruppo pensavano solo alla musica.
E io, accidenti, l’unica ad aver studiato mesi per rialzare la media dopo il tonfo dell’inverno precedente, ero incastrata in quell’assurda situazione, quando avrei dovuto -anzi voluto- in quel momento, starmene a sudare il rush finale, ingobbita fino a notte fonda sopra i miei libri consumati. Avvolta nella vestaglia di flanella e con la mano stretta sopra la calda ciminiera di una tazza di tè aromatico.
“Vecchia secchia, ah ah”. “Sì Lupo, d’accordo, sono una vecchia secchia”. Parlavo da sola, sragionavo. Ero il contenuto della formina di un ghiacciolo, incastrata e nascosta dietro una siepe ai margini della strada. Intorno il buio totale, ed erano solo le cinque del pomeriggio. Intanto continuava a piovere, ma la neve non accennava a sciogliersi. Le auto scorrevano veloci, i rari passi della gente, anche. Non mi sentivano chiamare, ho sempre avuto poca voce e in quella situazione la stavo perdendo del tutto. In più, ero conficcata troppo in basso perché mi si notasse.
Alla fine mi ero addormentata, è nella mia stupida indole lasciar fare al destino. Giunta a quel punto sarebbe stato difficile pensare a un mio risveglio, ma, ecco gli strani casi della vita -nei quali, ho capito, non bisogna mai smettere di confidare-, passò di lì mia nonna.
Ora, mia nonna, benché ancora parecchio bohemienne, d’abitudine non se ne andava in giro durante i pomeriggi rigidi d’inverno, tanto meno nella pioggia. Aveva appena compiuto ottant’anni, era mezza cieca e camminava col bastone. Comunque passava di lì, cosa che a me non mi dispiacque affatto, e bloccai immediatamente il fluire di domande fuori luogo. Il bastone che di solito lei usava per appoggiare il peso del corpo, lo stava agitando come un machete. Ancora me la vedo, ombra furente e inconsapevole che mi passava accanto, con le sopracciglia contratte sotto la fronte aggrottata, mentre sperava di beccare le caviglie di qualcuno. E invece intruppò nel manico della chitarra, che sporgeva dai rami del cespuglio basso, come una freccia, rossa per di più, a indicare la direzione dove sarei stata facilmente ritrovata. Incredibile, a ripensarci ora, che nessuno ci avesse fatto caso. Certo mancava poco a Natale e, si sa, quelli sono giorni in cui la gente pensa solo ai fatti propri.
[continua]
David Sylvian – Red Guitar