Renzo Montagnoli mi ha chiesto un racconto che ruotasse attorno al Natale per il suo sito Arte Insieme. Nell’invitarvi a visitarlo (vi trovate una ricca selezione di poesie e racconti, e non solo di argomento natalizio, oltre a molte informazioni utili a chi scrive o intende farlo) ripubblico qui il mio piccolo scritto, corredato delle illustrazioni originali di Michele Penco. Buone feste a tutti! Il blog va in vacanza fino ai primi di gennaio.
L’assemblea di Natale
di Rita Charbonnier – illustrazioni di Michele Penco
C’era una volta un elettrodomestico che tutti, ma proprio tutti, avevano in casa, malgrado non fosse indispensabile. Non serviva a conservare i cibi o cuocerli, né a lavare la biancheria o pulire il pavimento. Eppure era in funzione ovunque giorno e notte e diffondeva un perenne, confortevole borbottio. Alcuni utenti si curavano solo di accenderlo per poi dedicarsi ad altre attività, ascoltandolo distrattamente; i più vi si spaparanzavano di fronte, soprattutto la sera, e lo osservavano mangiucchiando, fumando o grattandosi. Poiché l’elettrodomestico riproduceva, oltre che suoni, immagini. Era questa la sua forza.
Purtroppo però le immagini non erano belle. I colori erano falsi, troppo accesi, e i volti deformi: labbra innaturalmente gonfie, capelli trapiantati, tinti e stirati, fronti distese a forza che conferivano un’espressione tonta, in contrasto con lo sguardo crudele degli occhi truccatissimi. Anche quelli degli uomini.
Nemmeno le voci erano belle: il più delle volte si trattava di grida che rivelavano, e comunicavano, un desiderio ansioso di sopraffazione. E nemmeno i contenuti erano belli. Era raro cogliere qualcosa che desse piacere, o commozione, che sorprendesse il cuore o facesse nascere il desiderio di comprendere meglio una cosa importante. Giusto a tarda notte qualche insonne incappava in un sorriso vero, un pensiero onesto, un concerto pacificante; ma poi, al mattino, tornava tutto come prima.
Ora, il fatto è che gli elettrodomestici erano profondamente stufi di questa situazione. Se ne stavano immobili nei salotti, nelle cucine, nelle camere da letto e a volte anche nei bagni, condannati a trasmettere spettacoli che trovavano bruttissimi. In più erano costretti a sorbirsi la visione deprimente dei loro proprietari accasciati sulle poltrone a ruttare, le dita affondate nei popcorn e i telecomandi in bilico sui grassi stomaci.
Attraverso cavi, antenne e parabole, cominciarono quindi a discuterne tra loro e decisero in breve di convocare un’assemblea generale. Scelsero di incontrarsi la notte della vigilia di Natale, quando tutti gli esseri umani sarebbero stati intenti a scambiarsi auguri e regali, e per una volta non avrebbero fatto troppo caso a loro.
La sera del 24 dicembre splendeva nel cielo una luna piena e sorridente, che divenne addirittura ilare nel vedere le strade della città affollarsi di schermi LCD, ultrapiatti e ultramoderni, dispositivi fuori moda con i tasti a molla, mini-schermi che si potevano tenere sulle ginocchia, e anche qualche telefono cellulare assai evoluto. In gran segreto e senza dire una parola, tutti marciavano verso un pratone di periferia dove s’erano dati appuntamento.
I più silenziosi erano i maxischermi, che si guardavano intorno con sussiego: avevano lasciato il posto d’onore negli elegantissimi salotti per ritrovarsi nel mezzo di una marmaglia un po’ plebea. Alcuni corpulenti apparecchi anziani, che per funzionare avevano bisogno dei decoder, li avevano lasciati a casa e quelli li rincorrevano strillando: “Dove credi di andare, senza di me? Tu da solo non vali più nulla!” Gli ultimi ritrovati della tecnologia, che servivano anche per andare su Internet, avevano aderito alla manifestazione per puro spirito di solidarietà; ma del resto i loro padroni non li utilizzavano quasi mai per la rete, convinti com’erano che questa fosse un luogo adatto solo agli sporcaccioni e alle persone sole.
All’alba del 25 dicembre le strade della periferia erano percorse da un solo veicolo, un camion con due uomini a bordo. D’un tratto il conducente fece una frenata così brusca che il suo amico rischiò di sbattere la testa contro il vetro: al centro del grande prato troneggiava un palazzo altissimo e bellissimo, che il giorno prima non c’era! Non s’era mai visto! Mentre il sole si levava, i due scesero dal camion, si avvicinarono al portone d’ingresso, lo aprirono e si addentrarono circospetti: l’edificio si componeva di appartamenti fatti e finiti, perfetti in ogni particolare, completi di muri, porte e finestre con le maniglie, scale, ascensori, mobilio, persino quadri e tappeti. C’era tutto quel che serve in una casa per poterci abitare.
Mancava solo la televisione.
Da quel giorno, tutti coloro che lavoravano in tivù si ritrovarono senza occupazione. Riuscirono però a reinventarsi in fretta: qualcuno si trasferì in Sicilia per riorganizzare l’assistenza ai profughi del mare, qualcun altro installò un cavalletto a Piazza Navona per ritrarre i turisti di passaggio, i più si impiegarono come guide negli studi televisivi, che furono trasformati in musei. E pian piano tutti i volti deformi recuperarono la loro naturale bellezza.
Gli utenti trovarono modi più gustosi di trascorrere le serate: andare a trovare gli amici, passeggiare all’aria fresca, godersi uno spettacolo a teatro o magari restare a casa per fare l’amore. Ogni tanto una coppietta, tenendosi a braccetto, passava sotto il grande palazzo di periferia e sussurrava: “Certo che quel fabbricato è uno spettacolo. Non c’è che dire: Renzo Piano non si smentisce mai.”