[segue]
Avevo percorso a passo sostenuto tutta la distanza. Non ci sarei dovuta andare ma ormai era cosa fatta, mi giustificai con me stessa. Usai le chiavi, potevo percorrere non accompagnata il dedalo degli stretti corridoi dei quali, dopo sei mesi, conoscevo ciascun meandro. Bussai forte, mi aprirono la porta di metallo. Era un’ampia cantina, il posto dove i condomini di Federico, gente “normale”, tenevano prosciutti, sci da fondo del 1912, racchette da tennis spaccate e altri rottami vari, vecchi, sporchi e mediamente ormai inservibili. Noi ci avevamo portato gli strumenti e le attrezzature. Ci ritiravamo lì spesso per provare. Le nostre eterne prove in vista del concerto che nessuno aveva ancora programmato.
- Allora sarà a marzo eh, ragazzi -, stava annunciando appunto il batterista, mentre entravo. Federico (chissà com’è, i batteristi hanno tutti la testa sulle spalle) era geometra e studiava da architetto. Lo stesso anno d’ingresso in facoltà di me e Lupo, ma lui svettava già verso la laurea, non si perdeva certo in chiacchiere.
Solare, spiritoso, prestante. In genere, le donne che capitavano nello scantinato, me esclusa che ero una musicista -mica una donna-, erano sue. Ma anche Lupo aveva il suo codazzo. Era la voce, il principale compositore dei testi e l’altra chitarra. L’atteggiamento strafottente e fatuo, esibito specialmente se aveva davanti un pubblico, unito a un’aria fragile e timida, complice il fisico e le abitudini ascetiche. Abbastanza per solleticare le fantasie materne della maggioranza delle ragazze che frequentava. Delle sue storie venivo a sapere a cose fatte. Concluse. Finite, insomma. Me lo raccontava lui quello che era successo, si era accorto che ho le spalle larghe, in tutti i sensi.
Le vedevo ronzare, quelle ragazze, con aria sfacciata per qualche giorno attorno a Lupo. Quando si dileguavano, lui correva da me, appoggiava la guancia sul mio petto, accarezzandomi insistentemente con la mano un fianco e socchiudendo gli occhi. Quindi cominciava a torturarmi. La storia era sempre quella: la ragazza gli mostrava la sua ammirazione, lui la invitava a casa sua per vederlo esercitare alla chitarra e a un certo punto, senza tanti complimenti, si abbassava i pantaloni. Quelle che non fuggivano impaurite o offese, lo compiacevano volentieri. Ma, imparai a capire, quando si rendevano conto di non essere loro l’oggetto del suo desiderio, lo mollavano su due piedi, e senza tante spiegazioni. Lui trovava il modo di sublimare la sua infelicità e di punto in bianco sbocciavano bellissime canzoni, che presto o tardi avrebbero fatto breccia nel cuore di qualche altra malcapitata.
Io invece ero quella che, appena conosciuto, l’aveva invitato un pomeriggio a casa propria. Lo aspettavo sbirciando dietro la tenda della finestra grande. Il rombo della moto si spense. Lo vidi scendere e avvicinarsi con passo dondolante. Indossava jeans neri, anfibi e, sotto il giubbotto di pelle, una maglietta sdrucita, anche questa nera. Per l’occasione mi ero truccata e vestita da ragazza. Quando gli aprii la porta, teneva gli occhi bassi e da dietro la sua schiena sbucarono un disco degli UB40 e uno degli esordi degli Smiths. Mi disse di tenerli, erano regali. Immaginai li avesse rubati o che fossero cose a cui non teneva affatto, ma ne fui lo stesso molto felice.
Ci sedemmo in salotto, sul divano, fianco a fianco. Mio padre andava e veniva, bofonchiando stupide scuse. Non sapevamo di cosa parlare, non avevamo alcuno strumento a portata di mano e finimmo per passare un paio d’ore sorseggiando del tè e scambiandoci larghissimi sorrisi.
Quando se ne andò, baciandomi una guancia, ebbi chiaramente una doppia percezione, la mia e la sua, del legame che da quel momento incominciava a unirci. Venne subito il periodo delle confidenze. Mi aprii completamente, avevo una fiducia totale in lui, e gli raccontai tutto quello che di me non sapeva nessun altro all’infuori di me stessa. Lui fece lo stesso e, confidando nelle mie spalle larghe, proseguì anche la cronaca allucinata della sua vita quotidiana. Tanto era tutto un gioco. Provavamo quotidianamente insieme, intrecciavamo accordi, vocalizzi. Improvvisavamo e poi ci guardavamo senza trovare alcuna barriera tra i sorrisi. Era un gioco, niente più, e sentivo di essere tanto fortunata.
Con tutta quella vicinanza, quella comunanza di ormoni e di sudori, iniziai a ritrovarmelo al centro di ogni sogno, così vivido da farmi svegliare nel mezzo della notte pensando di averlo lì accanto. Avrei voluto un po’ di distanza dalla realtà. Provai a chiedergli di non farmi sapere più nulla di sé che potesse rischiare di ferirmi. Ma, per gradi, e poi sempre più rapidamente, al mio infragilimento corrispose la sua difficoltà ad avere ancora a che spartire con me. La materia tra noi si fece ispida, non fu più facile accarezzare le parole. Diventammo più sensibili, sospettosi, aggressivi. Duellammo per mesi, dilaniando e disperdendo al vento quasi tutto il poco che avevamo costruito. Ma continuando a fare tutto insieme.
Quando mi decisi al chiarimento, e lui, nella penombra di un cambio di spartito, appoggiò la fronte sulla mia, girò di scatto la testa mentre tentavo di baciarlo. L’improvviso ricordo di un impegno preso, una chiamata, un tic, del semplice disgusto? Cose che capitano, in ogni caso. Questo almeno credevo. Quello che è certo è che ci rimasi così male che ancora in questi giorni la bruciatura si faceva sentire forte e io lo evitavo, o meglio, con lui mi comportavo in maniera appena più che formale. Lupo appariva rilassato, sereno e iniziò a tenere nei miei confronti lo stesso contegno.
- Sei venuta qui in pigiama? Cos’è ’sta storia della nonna? Allora, non parli? Che faccia di legno che hai.
Il mal di testa deflagrò feroce.
Mezz’ora dopo ero già a letto. Respiravo forte dalla rabbia per i tanti motivi accatastati uno sull’altro. “Le perle ai porci, le perle ai porci”, mi ripetevo, sfregando la fronte sul cuscino. Con la federa del quale, come accadeva spesso ormai, mi asciugai a lungo il pianto.
Nella stanza accanto mia nonna russava della grossa. La conoscevo, avrebbe riso delle mie insipide vicende. Dentro quel letto di fortuna ricavato dal divanetto allestito nella camera dello “stiro”, mi sentivo allo stesso tempo scomoda e insieme comodissima, come se il fatto di trovarmi lontano dal solito ambiente mi aiutasse a ripulire in qualche modo i ragionamenti dal pattume inutile. Prevalse questa seconda sensazione e, a poco a poco, le lacrime finirono per essere riaccolte entro le ciglia. Avevano ragione quei due vecchi matti: lungi dagli -ismi. Romanticismo, Sturm und Drang, bleah. Sono tanto patetica, non è vero nonna?
Nel corso della notte sognai lo svolgimento dell’esame. Per filo e per segno. Sognai di raccontare il sogno al professore.
[continua]
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