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Racconto “La taverna dei sette peccati” di Franco Benedetti per LA GAIA MENSA

Da Silviamaestrelli
Racconto “La taverna dei sette peccati” di Franco Benedetti per LA GAIA MENSA
Buona lettura con il racconto di Franco Benedetti, empolese DOC, per “La gaia mensa”, il quarto concorso letterario di Villa Petriolo.
Franco Benedetti è nato a Empoli il 9 Aprile 1945. Agente editoriale fino al 31 Dicembre 2005. Conosce importanti personaggi della cultura: Luigi Russo e Sibilla Aleramo. Dello spettacolo dei quali è allievo: Edmonda Aldini per imparare la gestualità; di Piera degli Esposti per impostare la voce e di Vincenzo Cerami per apprendere i primi rudimenti su come scrivere un soggetto. Scrive: racconti, poesie, commedie comiche. Viaggia in Italia per vedere, ascoltare, imparare.
Racconto “La taverna dei sette peccati” di Franco Benedetti

La Taverna dei sette peccati, è una baracca in collina nei pressi di Empoli, costruita in mattoni forati, coperta di lamiere zincate con sopra degli embrici d’un vecchio casolare, poggiati su listelli fissati sulle stesse, inclinate per far defluire la pioggia.
Funge da ripostiglio di oggetti d’ogni genere; poltrone sventrate, sedie scollate, infissi e pensili disfatti. Anziché buttarli, Arpagone, che dell’ambiente è il proprietario, li ripone dentro accatastati, insieme a zappa, vanga, una vecchia frullana e varie cesoie; strumenti che adopera nel campo, in leggero declivio, grande come tre giornate di lavoro. Ad ovest, un gigantesco fico ombreggia sullo spiazzo lastricato con mattonelle di vari colori. prossimo alla baracca, attrezzato con caprette, sopra due tavole per impalcature incrostate di calcina.
E’ anche il ricovero di undici pensionati, nonché attori della compagnia teatrale: “la Combriccola degli Artigiani. Ogni qualvolta gli viene il ghiribizzo, passa le serate nella taverna o sotto il fico, organizza pantagrueliche cene e schiamazza senza vergogna fino a notte fonda; lusingando Arpagone con mille artifizi, compreso quello dell’abbuffata gratuita, purché ospiti i sodali e li lasci armeggiare in quell’angusta cucina senza brontolare.
Il campo confina con il torrente detto de’ ricci, che scende fino a sfociare nell’Arno, una fila di aceri esclude il barbaglio dei raggi del sole respinti dall’acqua, ma non annullano il gorgoglio che si alimenta tra i rami e le foglie, come campanelli tibetani, che pronunciano il clamor della quiete tra valli e montagne suggestive.
In questa ambrata cornice, filari di viti sono ben ordinate nel misero castro, producono Trebbiano, solo quelle a ridosso degli aceri, che sembrano viti maritate, producono poche ciocche di Albarola, che in Toscana rappresenta una rarità, si sommano alla vendemmia che Arpagone cede all’amico Caronte, contadino d’antan, in cambio di qualche bottiglia di vinsanto e dieci damigiane di vino rosso vermiglio.
Quel vino così buono possiamo paragonarlo all’antico “vino da fianco”, lo si beve contro le coliche e loro ne trincano tanto e volentieri nei periodici incontri, per poter attestare che di coliche renali o di fegato, non ne hanno mai avute.
Giovedì 18 marzo, il freddo non pungeva come nei giorni precedenti e il cielo franco di nubi e imprecazioni terrene, invitava la combriccola a riunirsi per la cerimonia d’apertura della stagione luculliana. Di buon mattino partirono le telefonate a catena, guidati da Virgilio, regista degli undici della combriccola,
Pasquale e il Moro, dovevano raccogliere erbe commestibili nel campo e nella bassa sponda del torrente, nel territorio della “Taverna dei sette peccati”; Bolero, Sauro e Orazio, furono destinati all’acquisto delle vettovaglie, unanimemente scelte per dare un tocco di classe a tanto arrangiata sistemazione. Il resto del gruppo, compreso Arpagone, nel pomeriggio presero in consegna la stanzetta per liberarla da impedimenti, preparare il tavolo con tovaglia e tovaglioli di carta, piatti e bicchieri di plastica, posate d’acciaio dalle fogge scombinate, pentolone e padella e raccogliere la legna per il fuoco nel grill esterno. Caronte indiscusso mastro vinaio, era addetto a traghettare il suo nobile vino, dalla stagna in litri di vetro come quelli dell’osteria.
La sera allunga le ombre e altera la gaiezza, ma non la loro, sempre vispa perché eccitata anche da esili avventure. Poche ore prima erano tutti in maniche di camicia, accaldati dal rito e dai radenti raggi solari. Il tepore del giorno si era lentamente disperso, ricomparvero maglie e giacconi e in questo passaggio termico, i fuochi del gas e del grill si accesero per dare libero sfogo alla creatività dei novelli cuochi. Nella memoria viveva ancora la frenesia del giorno, la cerchia si era inabissata nella pastosa tenebra, rimase la misurata scena, affollata di uomini evasi dalla realtà ordinaria.
Uscirono dai panieri di Pasquale e del Moro; cicoria, cicerbite, raperonzoli e salvastrella per l’insalata fresca e croccante; bietola per il piatto caldo. Grillo, ancora in maniche di camicia, lavò l’erbe selvatiche, mentre Nerbone con la grazia d’un bisonte, tagliò le cipolle a julienne per farle rosolare con aglio e alloro in olio extravergine. Nell’aria si diffuse immediatamente un intenso profumo di sogni vertiginosi, una melodia. Appassite le cipolle, Nerbone tolse dalla padella l’aglio e l’alloro, dopo che avevano esalato l’ultimo aroma, aggiunse i pomodori pelati, una misurata quantità di concentrato e filetti d’acciuga, tutto si doveva sciogliere per alimentare i nostri perversi pensieri. Fu il turno della bietola, si assopì immediatamente all’interno nell’intingolo, solo per soddisfare i nostri palati, giunse infine il momento di passare il composto dalla padella alla pentola coi ceci immersi nel brodo di cottura, quella grazia di Dio s’avviò consapevole al successo. Mancava mezz’ora, tanto bastava per regolare la densità e il sapore.
Fuori la legna ardeva come all’inferno, non c’era tempo per arrostire quell’anime perse, doveva attenuare velocemente il suo ardore, farsi brace, per cuocere le gigantesche bistecche di razza chianina.
Che meraviglia quei “ragazzi”, un barlume di coscienza li gonfiò d’entusiasmo; "che state a fare costì impalati!", urlò il Trombaio, "lo stomaco ruglia dalla fame, ci sono da preparare crostini e fette unte". Il rosso vermiglio cominciò a circolare nei bicchieri, che cantano come le cicale, quando sono vuoti; arrivarono le fette marchiate dal fuoco e dalla griglia, ognuno a piacere strusciò l’aglio, mise l’olio, il sale e il pepe.
S’aprirono gl’involti di carta gialla, guizzarono fuori come budella, burischio e soprassata; rullarono i tamburi, dettero fiato alle trombe, le chiacchiere e le risate, frenarono la salivazione ormai giunta allo stremo, i primi agognati bocconi erano già stati deglutiti.
Nerbone distribuì nelle scodelle i cubetti di pane arrostito, versò sopra il fumante “cacciucco di ceci”. Le bistecche andarono sul fuoco, pochi minuti poggiate per un verso, lo stesso tempo dall’altro, senza dimenticare i fianchi, da insaporire dal rovente alito del legno d’ulivo. Il vino anticoliche anticipò la digestione, l’appetito non diminuì e loro continuarono la degustazione che per tutti fu con la seconda porzione di cacciucco.
Le bistecche arrivarono cotte a puntino. Il gusto si esaltò al battesimo, quando caldissime furono cosparse di sale grosso, i grani dovevano sciogliersi come lacrime immacolate, prima che Sventrapapere, lo “scalco” della combriccola le tagliasse e le servisse su vassoi di latta e l’osso da rosicchiare per coloro che hanno ancora quasi tutti i denti. Nate come oblò della lavatrice, due ciotole trasparenti erano già in tavola, ricolme d’erbe saporite e profumate.
In quella bolgia, le parole si fecero incomprensibili; tutta colpa dell’equinozio! La tanica di vino era andata in riserva, il dolce e il caffé seguirono dopo di un bel po’. Il gruppo si stringe, la chitarra del divino Sauro, artista dall’eloquenza pratica, partì con gli accordi del Trescone, stonarono tutti, seguirono canzonacce da bordello tra sghignazzi e rumori d’ogni sorta.
Il gran finale fu denso di verità incredibili e menzogne spudorate; ci fu un turbinar di ganze, zoccole e scopate a quattro cifre. Mendacem memorem esse oportet. Il bugiardo deve avere buona memoria. Alle mogli fischiarono le orecchie, tanto che trillò qualche telefonino, risposero all’unisono: "siamo al bicchiere della staffa", intanto la dama di grappa distillata da Caronte faceva l’ennesimo giro. Le mogli sanno che non sarà solo uno.
L’ultima auto della fila procedette lenta nella viottola, le luci si persero dietro la curva; nella “Taverna dei sette peccati”, scenario dello spettacolo, rimasero sospese nell’aria le novelle d’un tempo, raccontate dagli undici personaggi, disposti ad interpretare per lungo tempo ancora la metafora della vita.
Racconto “La taverna dei sette peccati” di Franco Benedetti per LA GAIA MENSA

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