Racconto onirico (Terzo quadro)

Da Bruno Corino @CorinoBruno


«Allora?», chiese mio fratello al mattino, «hai ricevuto altre visite?».
Avevo ripreso le mie forze. La sensazione vissuta la notte precedente mi aveva lasciato nell’animo una leggerezza incantevole. «Sì», dissi, «ma credo che sia stata l’ultima visita». Mi sentivo completamente guarito. Lo stato delirante era finito.
«Allora, questa notte non è successo niente?».
Raccontai l’accaduto. Chissà, qualche linea di febbre permaneva… forse per questo le percezioni extrasensoriali arrivavano attutite.
«Ma tu queste “presenze”… sì, queste presenze che senti non dicono nulla, non ti parlano?».
«No, ma non si rivolgono neanche a me…». «È davvero strano! È proprio strano!».
«Lo so anch’io che è strano. Infatti, nemmeno io riesco a capire se sono uno spettatore o se sono parte attiva. Non so cosa dirti!».
«Ti ricordi del professor Tullio?».
«Quello che si dedica allo studio delle scienze occulte? Sì, ne ho sentito parlare…». «Una volta insegnava filosofia nei licei, ma ho saputo che da quando è andato in pensione dedica tutto il suo tempo allo studio di questi fenomeni. Dicono che è uno studioso serio. Secondo me dovresti parlarne con lui, magari è in grado di dirci qualcosa!».
«Sì, potrebbe essere una buona idea».

Bizzarre rivelazioni…
Il professor Tullio ascoltò il racconto con estremo interesse.
Il suo aspetto mi ricordava un ritratto di Charles Dickens.
Alla fine del racconto, commentò: «Non so come sia successo, ma il suo stato febbrile ha prodotto un ponte tra due realtà lontane nel tempo e nello spazio…».
«Cioè lei crede che non siano soltanto allucinazioni?».
«Veda, se lei in questo momento si trova qui a parlare con me, a meno che non voglia prendermi in giro…», stavo per interromperlo, ma con un gesto della mano mi feci capire che voleva continuare il filo del suo discorso, «ma ritengo che non siate il tipo, cioè intendevo dire che non si tratta di stabilire se le sue percezioni siano state delle allucinazioni o qualcosa di reale. Senza dubbio sono delle percezioni extrasensoriali! Come lei stesso ha detto è entrato in contatto con un’altra realtà. Ora si tratta di capire se lei è venuto da me per avere lumi sul meccanismo di queste percezioni oppure se vuole capire cosa significano questi messaggi».
«Sarei interessato ad entrambi gli aspetti!».
«Vedete, io sono considerato un mezzo pazzo, un mezzo stregone e un mezzo rimbambito. A seconda con chi parlate, generalmente le opinioni che corrono sul mio conto si dividono tra queste due mezze verità. Vi dico questo perché capite che c’è tutto il mio interesse a credere a ciò che m’avete raccontato…».
«Per quale ragione?». Domandò mio fratello.
«È semplice! Da anni e anni m’occupo di scienze occulte. Il mio interesse in realtà è nato da quando frequentavo il liceo. Ho fatto la mia tesi di laurea su Giambattista Della Porta, poi mi sono sempre più occupato di stregoneria, di sciamanesimo, di spiritismo. Mi sorprendono questi fenomeni paranormali, ma me ne sono sempre occupato come studioso. Non crediate che sia il tipo che si mette a fare sedute spiritiche, o a predire il futuro con un pendolino! Eppure per il fatto che leggessi e studiassi questi libri mi sono fatto la fama che voi conoscete. In realtà, a me non è mai capitata un’esperienza come la sua, però storie analoghe ne ho lette tante. Ci sono anche tanti scrittori che hanno trattato temi del genere. Pensate a Fogazzaro, a Henri James, a Edgar Allan Poe, o a Emily Brontë, per citare soltanto qualche nome. In un modo o nell’altro sono presenze che fanno parte della nostra esistenza…».
La stanza, nella quale ci aveva ricevuti, era immersa nella penombra: aveva acceso il lume posto sullo scrittoio rotondo su cui erano poggiati il famoso Picatrix e un altro libro dal titolo Viaggio nella notte di S. Giovanni. La poltrona su cui sedeva il nostro mentore era accostata di lato allo scrittoio, per cui i suoi capelli bianchi brillavano d’una luce azzurrina. «Cosa intende dire, professore, quando parla di un ponte gettato tra due realtà?».
Domandai, interrompendo il flusso dei suoi discorsi.
«Quando noi viviamo all’interno dei fenomeni naturali, i nostri sensi formano una sorta di corazza che serve a preservarci dai pericoli. La coscienza deve continuamente essere vigile per impedire di lasciarsi sorprendere dai rischi che incombono sulla nostra esistenza. Ciò ci rende come impermeabili a tutte quelle realtà che non rientrano nell’ordine delle cose naturali. Esistono però momenti della vita in cui queste difese vengono abbassate. Ora vi risparmio i motivi di questo abbassamento per non annoiarvi, e vi dico soltanto che è in questi momenti che la nostra coscienza diventa permeabile a flussi extranaturali. I sogni, per fare un esempio, s’avverano nel momento in cui il corpo e i sensi sono rilassati. Le immagini oniriche sono così nitide che anche al risveglio, come aveva notato Schopenhauer nel libro su’ La visione degli Spiriti, facciamo fatica a renderci conto che facevano parte di un sogno. Oltre al sogno, esistono altri momenti in cui le nostre difese s’abbassano: lo stato febbrile, che ha vissuto lei, è uno di questo; ma poi ci sono altri che vengono provocati artificialmente, ma di questi, se vi fa piacere, parleremo più tardi…».
«Non riesco ad afferrare il nodo del problema. Voglio dire non credo che uno stato febbrile ci metta in comunicazione con un’altra realtà. Vorrei capire se ciò che mi è finora capitato sia soltanto frutto di mie allucinazioni. In ogni caso», continui impedendo all’altro la possibilità di interrompermi, «in ogni caso, la prima sera che arrivammo in paese, quando vidi quell’ombra di donna dietro i vetri, ancora non avevo febbre. Allora mi domando: quell’ombra era una persona reale o un preludio delle mie allucinazioni?».
«Non è facile capire come avvengono queste cose! Ma è chiaro che lei sta vivendo delle esperienze fuori dall’ordinario. Si è materializzato un ponte. Per un attimo però dobbiamo abbandonare il buon senso!».
Il professore fissò a lungo il lume, come se s’aspettasse da quella luce fioca il segnale capace di squarciare il velo misterioso e di vedere oltre. Notai mio fratello, seduto sull’altra sponda del divano, fissare anch’egli quel lume, e scorsi un fremito di paura sulla sua faccia contratta. Si vedeva ch’era combattuto tra il restare o l’andarsene.
«Io credo che quell’apparizione sia la stessa donna che l’ha baciato la notte scorsa. Non è lei che è entrato in contatto con “loro”», disse calcando bene questo pronome, «ma sono “loro” che sono entrati in contatto con lei!».
«”Loro”? Loro chi?».
«La donna e il suo amante. Credo che l’amante conoscesse le arti magiche e ora sta rivivendo la sua esperienza mediante la sua persona! Sono loro che sono riusciti a creare un ponte!».
«Mi scusi, professore, ma adesso entriamo nel campo delle congetture o delle fantasie. Poniamo il caso per un istante che lei abbia ragione: in primo luogo dobbiamo credere che la magia sia davvero efficace, ma viviamo nel XXI secolo, professore, e queste credenze hanno fatto ormai il loro tempo. In secondo luogo, lei mi sta dicendo che questi misteriosi personaggi mi stanno usando per i loro fini!».
«Naturalmente lei è libero di credere o di non credere, ma la “persona”, se così vogliamo definirla per quieto vivere, che sta comunicando con lei avrà avuto dei poteri straordinari».
«Ma allora», intervenne mio fratello, «potrebbe addirittura trattarsi del demonio!».
«Lo escludo, anzi dai pochi segni in nostro possesso direi ch’era un uomo di chiesa; forse un inquisitore…».
«Un inquisitore?». Ripeté mio fratello
Ma…», dissi, «come avrà fatto costui ad entrare in contatto con me, a creare questa sorta di ponte? Non credo che abbia usato una formula magica!».
«Capisco che la cosa si presta all’ironia. “Lui” in realtà le sta facendo rivivere frammenti della sua esperienza. È come se il suo spirito fosse rimasto prigioniero da qualche parte. E ora ha bisogno di liberarlo. Ora se lui fosse un uomo di chiesa, come si può ipotizzare, l’amore provato sarà stato vissuto come uno stato peccaminoso, e chissà le loro anime saranno rimaste incatenate in qualche luogo. Ora lui sta usando tutta la potenza delle sue arti per potersi sciogliere da questo nodo…».
«Ma se così fosse potrebbe trascinarlo con sé!». Disse mio fratello.
«Non credo che questa sia la sua o la loro intenzione, vogliono tornare al punto in cui possono redimersi ed espiare le loro colpe o porre rimedio a qualcosa…».
«Perché hanno scelto me? Dove sono vissuti costoro? In che epoca, in che luogo?».
«Per avere queste risposte bisogna aspettare. Sul perché hanno scelto proprio lei una risposta potrebbe esserci: lei mi ha detto che si diletta a scrivere racconti, quindi è in grado di dar vita a dei personaggi immaginari. Ebbene, hanno scelto lei perché hanno bisogno di comunicare la loro storia, di farla conoscere al mondo. È una storia seppellita dai secoli, di cui non è rimasta tracce, nessun nome, nessun luogo, nessun documento; loro, fino a questo istante, è come se non fossero mai esistiti, e così la passione che li ha travolti è come se fosse sfumata nel tempo, vanificata; e forse davanti a questa evidenza non s’arrendono, vogliono vivere, vivere e vivere ancora, e in eterno, ma ciò che soprattutto vogliono far vivere è il loro amore, quell’amore che della loro esistenza sarà stato tutto l’emblema e il segno del loro destino; non vogliono rivivere ogni istante della loro trascorsa vita, ma soltanto l’istante della loro passione che li avrà condotti alla morte o all’oblio!».
«Ma ora che la febbre è passata, come faranno a mettersi in contatto con me?».
«Se lei non ha paura, posso fornirle una sostanza…». S’alzò e si diresse verso un mobiletto dal cui cassetto tirò fuori un sacchetto di lino: «È un estratto di Amanita Muscaria, i cui principi agiscono sul sistema nervoso; è una sostanza leggermente tossica, ma se viene usata con cautela non provoca nessun danno e nessuna dipendenza. Provoca soltanto delle visioni. Queste piante venivano un tempo usate dagli sciamani per compiere i loro viaggi tra gli spiriti. All’inizio ne faccia un uso molto prudente, poiché un forte shock può causare addirittura uno stato di coma. È sufficiente masticare un pizzico di queste essenze essiccate per avere degli effetti».

Uscimmo da quella casa scossi e scettici. Avevo in tasca il sacchetto. Forse le voci che circolavano sul conto del vecchio professore non erano del tutto infondate. Pensavo al recente passato e a quanto m’era accaduto, e continuavo a ripetere a me stesso: è se ci fosse qualcosa di vero in questa versione? Non è facile modificare, quando si è ormai maturi, le proprie opinioni intorno a degli argomenti. Io non ho mai creduto né agli spettri né agli spiriti, né mi sono mai fatto persuaso che le anime rimangano incatenate da qualche parte.
Camminavamo l’uno a fianco all’altro, in silenzio, sentivamo soltanto il rumore dei passi e delle suole strusciare e sfregare lungo il sentiero imbrecciato. Il cielo era illuminato dalla luce azzurra della luna. Camminavamo con prudenza per evitare di scivolare sulla breccia. Le ombre come giganti della sera s’allungavano, si stendevano per poi perdersi nel fitto della vegetazione.
Avevo la sensazione che qualcosa mi sfuggisse, come se quel vecchio affabulatore ci avesse nascosto qualche elemento importante. Avevo l’impressione di aver dimenticato di chiedere qualcosa di importante, ma non sapevo cosa.
Ormai mi vedeva del tutto rimesso, per cui la storia poteva anche terminare a quel punto. Non aveva quell’ansia curiosa che spinge a cercare in posti sconosciuti e a scoprire misteri irrisolti. Mio fratello era assai perplesso. Per lui tanto valeva fermarsi lì, e continuare la nostra permanenza al paese in tutta tranquillità e poi ripartire. A me, invece, questa storia cominciava ad assillarmi. Si trattava di andare oltre le Colonne d’Ercole e vedere cosa c’è al di là del mondo fenomenico.

Versi tagliati…

Leggere qualche pagina prima di addormentarmi. Di solito non leggo mai per due sere di seguito lo stesso libro. La lettura serale è un atto rituale. Non è tanto importante il momento in cui mi metto a letto e apro le prime pagine del libro, quando, invece, il momento in cui, prima di coricarmi, devo scegliere le pagine da leggere. In questo rituale a volte mi capita persino di perderci decine e decine di minuti. Quando sono davanti alla mia libreria per scegliere una lettura, prendo tra le mani un libro, lo sfoglio velocemente, poi lo rimetto a posto, e ne prendo un altro. A volte, come dicevo, vado avanti con questa scena fino ad arrivare a scorrere anche dieci o quindici libri, finché, alla fine, stanco di questo continuo sfogliare, arrivo al punto di dire a me stesso ora scelgo il primo libro che mi capita.
Scelgo di solito qualche raccolta di poesia. Addormentarmi leggendo qualche verso mi rasserena l’animo e non mi vincola a proseguire l’identica lettura la sera successiva. È una lettura priva di conseguenze. Finito di leggere un componimento poetico, posso finalmente addormentarmi, e lasciare che gli ultimi versi letti cullino il mio sonno.
Ora che ero completamente guarito, tornavano non solo le forze, ma anche le vecchie abitudini. Quando sono al paese, questo rito è piuttosto dimezzato, perché la scelta è piuttosto limitata. Nelle due serate precedenti, a causa dello stato in cui versavo, avevo saltato di compiere questo rituale bizzarro. Fu al quel punto che mi ricordai che prima di partire avevo acquistato su una bancarella un libro vecchio. Stava nella borsa di viaggio, avvolto in una busta di plastica. Cosicché, quella sera, non faticai molto a scegliere il libro della lettura serale.

Era un libro dal formato tozzo e maneggevole, trascurato nell’aspetto esteriore, anche se riportava sul frontespizio la data MDCXI, non era costato molto, perché si trattava di un tomo quarto di un’opera smembrata. Si trattava di un’opera di Sant’Agostino, scritta in latino,. Aveva una copertina rigida e dura, che conservava tutti i segni dei quattro secoli trascorsi. Il suo colore giallino era ricoperto da una patina di polvere che ne aveva cambiato l’aspetto. Soltanto sul dorso v’era riportata, scritto a mano, il titolo e l’autore:

S. Augustini
Questiones
Pars I
Ti IV

Gli spigoli delle pagine, sopra e sotto, erano leggermente rosicchiati. Sfogliando l’indice, capii che si trattava di commenti alle Sacre Scritture. Il frontespizio m’era piaciuto fin dal momento in cui lo comprai: in mezzo a una cornice arabesca v’era disegnata un’anfora dalla cui boccuccia fuoriusciva dell’acqua che innaffiava dei fiorellini, mentre alle sue spalle una nuvoletta dalle sembianze umane soffiava un venticello. Un motto, “A poco, a poco”, stampato in senso orario, sui bordi interni della cornice, circondava l’anfora.
Mentre mi dilettavo ad esaminare questo disegno, notai che ai fianchi della cornice v’erano delle scritte a mano cancellate con dei ghirigori molto incisi. Riuscivo a malapena a leggere un “Io” e una “F”. Provai a leggerle in controluce, ma il risultato non cambiava. L’inchiostro, che copriva la scritta, era denso e aveva finito con l’assorbirla del tutto. Sulla pagina bianca, a fianco del frontespizio, era riportato, in un corsivo nell’andamento più o meno elegante, ricco di svolazzi, di prolungamenti e di code, una frase in latino, ma la grafia risultava anch’essa indecifrabile.
Cominciai a sfogliarlo per vedere se anche nelle pagine interne vi fossero altre scritte aggiunte a mano. Era un tomo di 954 pagine, ma ad una scorsa veloce non notai nessuna aggiunta. Nelle pagine bianche in fondo al volume sul lato destro c’erano altre cancellature e una parola che si ripeteva disseminata in modo disordinato su tutto il foglio: “Non possum”. Sulla parte bianca della copertina interna si leggevano chiaramente questi versi:

Scioltasi la lacrima si spand[e]
Nel dolce turbinìo dei tuoi […]
E una voce tremula e vibran[te]
sussurra la notte vergine degli aman[ti]

Era una grafia piuttosto angolosa e rigida, dal tratteggio pesante, che a colpo d’occhio denunciava, in certe particolarità, la mancanza di spontaneità. Le ultime lettere di questi versi non si riuscivano a leggere perché sopra vi era incollata una strisciolina di carta su cui si leggeva un nome Sign. Egidio Domenico… Dopodiché la strisciolina era stata tagliata, per cui non si leggeva il cognome. Tutt’e tre le grafie in fondo al tomo erano riconducibili, così mi sembrava, a un’unica mano, mentre quelle trovate sulle pagine del frontespizio, quella grafia delicata ed elegante, mi sembravano scritte da un’altra mano, forse femminile. Riuscire a completare il senso delle altre parole era facile, ma capire quale fosse la parola che combaciasse con “amanti”, non lo era affatto. E purtroppo non mi sembravano versi conosciuti. Forse appartenevano a chi li aveva tracciati sul libro. Provai a leggere il termine scritto dopo “…turbinìo dei tuoi…”, perciò delicatamente con le unghia tentai di strappare quella strisciolina che copriva la parola, ma venivano fuori soltanto pezzetti di carta, e la parola che chiudeva il verso rimaneva celata.
Cominciai allora a congetturare sulla parola che potesse far rima con “amanti”: all’inizio mi venne in mente che fosse “canti” o “incanti”, ma non riuscivo a spiegarmi come la lacrima del poeta potesse sciogliersi “nel dolce turbinio dei tuoi canti o incanti”. Pensai anche di far combaciare il termine “amanti” con “fianchi”, ma il senso mi sembrava fuori luogo. Quel “tuoi” era rivelativo, poiché denotava il fatto che l’autore si rivolgeva nella sua mente a qualcuno. Immaginai, dunque, che il poeta o l’autore di questi versi, rivolgendosi a una donna, sciogliesse le sue lacrime su qualcosa che lo turbasse.
L’ossimoro creato dal “dolce turbinìo”, mi faceva pensare a qualcosa del genere: il turbinìo mi suggeriva un movimento rapido e incalzante, una danza vorticosa, mitigata però da quel “dolce”. Come se l’autore di quei versi avesse voluto esprimere non solo lo smarrimento della sua anima, ma anche il fascino delle sue inquietudini intime.
Il che mi portava a pensare che ci fosse qualche elemento fisico o spirituale della persona, a cui quei versi erano indirizzati, che turbasse l’animo del poeta. Ma per quanti sforzi facessi, nessuna parola mi veniva in mente che potesse dare un senso compiuto al verso. Ritornai allora sul frontespizio: m’era sfuggito il particolare che sotto la data stampata, ce ne era un’altra scritta a mano: “Giugno 1629”. Colto da un’improvvisa folgorazione, accostai le pagine del libro al naso: sentii di nuovo quell’odor di carta ammuffita e di sacrestia della notte precedente, e i battiti del cuore accelerare. Lo so che non c’era nulla di strano che quelle pagine conservassero quell’odore. Credo che tutti i libri, che hanno assorbito gli umori secolari delle stagioni, restano alla fine impregnati di quell’odore. Voglio dire non era quello l’indizio a condurmi sulle tracce di quella esperienza olfattiva vissuta la sera precedente, ma erano quegli esili indizi, esili come fili di seta, quelle parole cancellate, quei versi strozzati, quel ripetere più volte “non possum” a riportarmi a “loro”.

Attraverso una sottilissima filigrana, “loro” mi parlavano, come un tempo “loro” si parlavano. Forse lei lasciava i suoi messaggi scritti suoi sui libri preferiti, lui ne cancellava i segni, e poi preso da un impeto d’amore tracciava altri segni sul fondo del libro. Ipotesi labili, labilissime, costruite su una fragile ragnatela. Immaginavo che la sera del bacio fosse avvenuta mentre lui leggeva questi versi. Più ripensavo a quella scena e più avevo l’impressione che la chiave di tutto fosse racchiusa in quella parola nascosta. Anche se tutto mi sembrava assurdo, in quel momento ero come se non riuscissi a liberarmi da un incantesimo, ero ossessionato dalla curiosità di sapere quale fosse la parola enigmatica.
Non sapevo neanch’io in che modo quella parola, come dice il poeta, potesse darmi la formula che il mondo aprisse, che squarciasse il velo del mistero e che potesse finalmente dare pace al mio assillo. Fu nel corso di questa lotta magnetica e ossessiva ch’ebbi l’impulso a masticare l’Amanita muscaria; ero preso da un’indicibile tentazione di scoprire, di sapere se quel libro che stringevo tra le mani era il ponte che legava il mio destino al destino dei due amanti.
Confesso ch’ero terrorizzato: e se non fossi riuscito a controllare quelle visioni, cosa mi sarebbe accaduto? Quali mondi o universi nuovi avrei attraversato? Sarei riuscito a tornare indietro? Tirai fuori dal cassetto del comodino una strisciolina secca. L’annusai. Il profumo era simile a quello di un tartufo, ma conteneva qualcosa che respingeva. Ne spezzai un poco e cominciai a masticare. I minuti trascorrevano, e ogni secondo sembrava rallentarne il ritmo, non sentivo nessun cambiamento, forse ne avevo preso davvero poca o forse era un’invenzione di quel vecchio stralunato. Però la sensazione che il tempo, come i battiti del cuore, si fosse dilatato era netta; d’un tratto anche le meningi cominciare a pulsare, ed ebbi l’impressione che la testa volesse esplodere.
Il respiro cominciava a farsi affannoso. Smisi a quel punto di masticare. Tutto ciò che mi stava intorno sembrava ampliarsi, come se dentro ci fosse una sostanza che facesse dilatare e deformare le pareti e gli oggetti. Per non perdere il controllo della coscienza, ripetevo continuamente a me stesso chi fossi e dove mi trovassi. Ma sempre più percepivo che i confini tra la mia coscienza e il mondo esterno cominciavano a vacillare, come se tra i due mondi si fosse stabilita una connessione invisibile tale da farli pulsare all’unisono.
Avevo la percezione che la mia anima si stesse trasformando in tante molecole che staccandosi ad una ad una dal corpo cominciassero a vagare liberamente come polline nell’aria.
Non ricordo in quale punto preciso dello spazio, se negli antri della mia testa o in qualche parte del mondo ineffabile, perché tale distinzione non aveva alcun senso, vivevo – ma questo termine non so se rende bene l’idea – un incantesimo. Una voce diceva: «Soffriamo!». Di nuovo lo spazio fu sommerso da un aroma forte di cucina, e da un odore di carta e di cera che bruciava, anche se non vedevo nulla, questa volta percepivo rumori e suoni, canti e grida d’allegria, sebbene arrivassero attutiti come se provenissero oltre una porta chiusa. Un odore di mandorle, miele e zibibbo affluiva in quello spazio, mentre il liuto diffondeva una melodia soave, accompagnato dai cimbali e da un tamburo a membrana.

Lo scricchiolio leggero di una porta fece diventare la musica più forte e gli aromi più intensi.
«Tu?». Risuonò in uno spazio ignoto come colpo secco di tamburo.
Una porta si socchiudeva rumorosamente sui propri cardini e un respiro affannoso avanzava. «Tu», ripeteva la voce tagliente, «tu, non dovresti stare qui». «Hai letto i miei messaggi?». Era una voce femminile, dal timbro melodioso, una voce calda in preda a una emozione. L’altra diceva con tono perentorio: «Sì, ma non possiamo. Di là c’è il tuo consorte, va’ che t’aspetta». «Ho detto che venivo da te per un consiglio spirituale». Il tono di quella voce aveva un’aria maliziosa, di complicità sottintesa.
Una fragranza accattivante riempì lo spazio, un profumo intenso, avvolgente, riuscì a cancellare ogni altro odore. «Non possiamo…». Diceva quella voce tagliente, e ogni volta che ripeteva quel «Non possiamo», sembrava che la lama di quella voce perdesse il suo filo, e diventasse sempre più rotonda. Il profumo della donna risucchiava in una spirale vertiginosa ogni altra sensazione. Un senso di stordimento mi percuoteva le membra e di nuovo un bacio carico di desiderio m’inondò le labbra. «Siamo due peccatori…». Ripeteva la voce dell’uomo, stretta nella morsa ardente del piacere: «… due miserabili peccatori…». La musica proveniente oltre l’uscio s’era per un attimo acquietata, e s’era levata una voce che berciava: «Fiorenza, Fiorenza!». «Va’, va’», diceva l’uomo riprendendo il tono tagliente nella voce, «t’aspetta…».
Il profumo cominciò ad allentare la sua morsa, e pian piano cominciò a svanire. Man mano che il ritmo del cuore riprendeva i suoi battiti, gli oggetti e le pareti della stanza smisero di pulsare...
continua...


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